L'”Allegoria del Trionfo di Venere” del Bronzino, un manierista che ci parla d’amore

Considerato dalla critica uno dei più grandi capolavori del primo Manierismo italiano, l’Allegoria del Trionfo di Venere, un olio su tavola conservato dal 1860 alla National Gallery di Londra, fu dipinto da Agnolo Bronzino tra il 1540 e il 1545.

Il Bronzino, che in quel periodo si trovava alla corte medicea di Cosimo I in qualità di ritrattista, ricevette la commissione del quadro proprio dal signore di Firenze, il quale intendeva inviarlo come dono al re Francesco I di Francia. Il Ducato di Toscana si trovava infatti in un delicato equilibrio politico e rischiava di venire inglobato dall’Impero di Carlo V d’Asburgo. Dunque inviando questo dipinto in dono, Cosimo I intendeva in qualche modo assicurarsi le simpatie della Francia; al contempo, si era alleato con la Spagna tramite il suo matrimonio politico con la figlia del Viceré spagnolo di Napoli, Eleonora di Toledo (peraltro protagonista di un altro meraviglioso dipinto del Bronzino).

Agnolo Bronzino era un pittore eccezionale, caratterizzato da uno stile elegante e armonioso. Tuttavia la sua cultura era circoscritta all’ambito artistico, quindi è molto probabile che l’intricato sistema allegorico dell’opera, caratterizzata da significati che si intersecano l’uno con l’altro come scatole cinesi, sia stato suggerito da qualche erudita mente della corte Medici.

Il dipinto è assai criptico, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione dei personaggi sullo sfondo, e pertanto è stato soggetto nel corso dei secoli ai più svariati studi, analisi e interpretazioni della critica.

Tra le varie interpretazioni troviamo l’allegoria dell’amore carnale; l’allegoria di quella bellezza che disarma la passione e le cui conseguenze sono la gelosia, l’inganno, la follia e l’oblio combattuto dal tempo. Oppure l’allegoria del giudizioso e accorto agire del regnante (alla luce della valenza politica dell’opera). Il regnante infatti deve fare attenzione a smascherare chi, con belle maniere, offrendo devozione e amore, offre servigi interessati, nascondendo la vera natura dei suoi comportamenti.

Il colore è smagliante e prezioso, la luce emessa dagli incarnati dei tre personaggi in primo piano, il disegno nitido che precisa ogni dettaglio, le posture variate sono gli ingredienti della felice composizione.

Procediamo a un’analisi più dettagliata dell’opera. Le figure che balzano immediatamente all’occhio sono quelle di Venere, dea dell’amore e della bellezza, e di Cupido, suo figlio, le quali occupano tutta la metà sinistra della tavola. Venere è seduta su un cuscino ricoperto da un drappo azzurro, in mano tiene il Pomo della Discordia, che la dea vinse ad Atena a ed Era grazie alla decisione dell’eroe troiano Paride. Cupido mostra la sua nudità senza pudore e solletica il seno di sua madre.
Madre e figlio sono raffigurati nell’atto di baciarsi, in un’immagine di un erotismo vagamente incestuoso. Nonostante l’atto d’amore, guardando con più attenzione, notiamo che in realtà ognuno sta ingannando l’altro, tentando di derubarlo: Cupido cerca di sottrarre alla dea il diadema che ella porta in capo, distraendola con le sue tecniche di seduzione; di contro Venere, mentre Cupido non guarda, gli ruba una freccia, così da renderlo meno pericoloso. Ai piedi dei due troviamo due maschere, simili a quelle usate per il teatro antico.

Sulla destra, invece, una figura di bambino, che danza spargendo rose e scuotendo i sonagli della sua cavigliera. È lo Scherzo, o la Follia. Dietro lo Scherzo vi è la Frode. La testa dolce e tenera di bambina ci fa pensare a una creatura benigna e innocua. Tuttavia, se andiamo oltre l’apparenza, scopriamo un essere mostruoso e ibrido, dal corpo squamoso di serpente, le zampe di leone e due mani destre. Una mano porge un dolcissimo favo di miele, ma l’altra sta nascondendo un pungiglione mortale, pronta a usarlo.

In alto troviamo un vecchio. Egli è Padre Tempo che tiene in mano una clessidra e, vincendo la forza dell’Oblio, la figura in alto senza cranio e dunque senza ricordi, scosta il drappo azzurro rivelando la Gelosia. Ella è rappresentata come una figura femminile livida e immonda che si strappa i capelli preda della disperazione cieca che porta con sé.

Il dipinto risente fortemente della filosofia neoplatonica, e per questo Bronzino propone come soggetto l’amore sensuale, il sesso, l’amore fisico, e tutti i sentimenti a esso correlati. L’amore è ingannevole, pare dirci l’artista. Inevitabilmente ci si mente a vicenda, si omettono verità, si cerca di prendere all’altro qualcosa per noi stessi, così come Venere con la freccia e Cupido con il diadema. “Ognuno uccide l’oggetto del suo amore” diceva Oscar Wilde nella sua Ballata del Carcere di Reading. E sembra che Bronzino voglia dirci proprio questo. Ognuno di noi cerca di plasmare l’oggetto del proprio amore, in qualcosa che ci piaccia di più, che sia più simile a noi. Così Venere chiede meno pericolosità, e Cupido meno bellezza e regalità. Le maschere vicino alle due divinità indicano proprio questo: l’amore è inganno.

Ognuno di noi porta una maschera, cela il vero io, cela tratti della personalità, dietro un’immagine più rassicurante. È solo grazie al Tempo che scosta il drappo azzurro, una sorta di Velo di Maia, che emerge la verità. L’amore non è perfezione, l’amore non è solo baci, passione e sensualità. L’amore è anche Gelosia, l’amore fa strappare i capelli. L’amore è menzogna, è frode. Tutte le volte in cui mentiamo, che sia in buona o cattiva fede. Le volte in cui amiamo qualcuno che ci mente, che ha una doppia vita, che ci inganna. Ma l’amore è anche bellezza, è Scherzo e Follia. Niente è più bello di due innamorati che hanno ancora la gioia di non prendersi troppo sul serio, di prendersi in giro, di ridere e scherzare insieme. L’amore però, quando finisce, fa male, e allora si invoca l’Oblio. Si prega di non ricordare più, di dimenticare, per poter andare avanti, e ricominciare.


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