Bonobo, con Migration un ritorno di classe ma stagnante

Cos’altro rappresenta questo decennio più del fenomeno delle migrazioni? Un cambiamento radicale, trapianto culturale spaventoso più per coloro che partono, che per chi ne riceve l’arrivo, al contrario di quanto vorrebbero dare a credere tante voci della politica dell’invasione. Solo di voci si tratta, e il mondo dell’arte ne è ben conscio, così come appare esserlo Simon Green, in arte Bonobo, nel suo ultimo lavoro, Migration.

A distanza di quattro anni da The North Borders, e ancora uscito per la fidata etichetta Ninja Tune, Bonobo decide di sfornare un progetto musicale che ha il sapore del concept, tanto le tracce in cui si sviluppa appaiono coese e intrecciate in un fluido filo narrativo. Il tema del cambiamento, dell’allontanamento, della ripetizione sono sciolti lungo tutto il percorso dell’album e, d’altronde, sono temi già altrove affrontati dall’artista stesso. È sì un ritorno su sé stesso, tematicamente, ma calibrato in maniera da essere aggiornato alle urgenze dell’anno nuovo, che Migration ha inaugurato, essendo uscito il 13 gennaio scorso. Simon è consapevole del percorso che vuole intraprendere, ma pecca di un eccessivo manierismo che non consente all’album di sfruttare appieno le sue potenzialità.

Musicalmente, Bonobo spezza con le sonorità più incalzanti del precedente lavoro, per avventurarsi verso un approccio per certi versi più “orchestrale”, incentrato sulla costruzione di armonie da pianoforte, in generale sfruttando maggiormente la sentimentalità degli strumenti a corda (i violini di “Second Sun” ne sono un fulgido esempio). Le intelaiature folktroniche, à la Four Tet, sono diluite in un riscoperto slancio compositivo, che porta Bonobo a rivestire Migration di una patina da world music, di cui è apoteosi “Bambro Koyo Ganda”, nella quale ritmiche africane s’intrecciano a più tradizionali cori d’archi, accompagnati da synth che rispolverano le influenze house di Simon, com’è evidente anche in “No Reason”, collaborazione con un Nick Murphy (fka Chet Faker) in forma smagliante.

Tuttavia, per quanto queste composizioni rimangano di eccellente qualità e sia indiscussa e riprovata l’abilità compositiva di Bonobo, Migration lascia un retrogusto di già sentito, di ridondante, che purtroppo fa comprendere quanto l’artista britannico non sia riuscito a lasciare il segno, nonostante le buone idee su cui l’album si fonda. Le innovazioni oggi stanno avvenendo altrove (mi viene in mente il duo Amnesia Scanner, o l’americano Daniel Lopatin), e la forma stilistica che ha scelto per il suo ritorno suona al massimo come un riuscitissimo esercizio di bravura, che però va ad aggravare la saturazione di un genere, quello inaugurato dal suddetto Four Tet, che non riesce a trovare ispirazioni brillanti per rinnovarsi.

Attenzione, le gemme in questo album non mancano. Le tracce citate prima sono sublimi, come lo è anche il singolo che ha anticipato l’uscita, “Kerala”, che comunque rischia di essere ricordato più per il suo video (impeccabili la regia e il montaggio) che per la musica, la quale rientra nello spezzettato ritmo che ha fatto la storia del misto di folktronica e downtempo di cui Bonobo è maestro. È dunque apprezzatissima la capacità compositiva, ma Migration avrebbe avuto bisogno di una spinta in più per potersi catalogare come più che accattivante e godibile. Ciò nondimeno, il tour che ne seguirà è prevedibile che sarà una delle migliori esibizioni di elettronica “intelligente” a cui poter assistere, ma è anche vero che, per quanto riguarda i live, Bonobo raramente ha tradito le aspettative. Si spera che anche col prossimo album farà lo stesso.

 


Credits: Img.

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