Viaggiare, non importa se vicino o lontano, significa provare e conoscere qualcosa di nuovo, di diverso, di affascinante. Dal cibo, alle tradizioni, dall’arte, ai monumenti. Prima di tutto, però, c’è la comunicazione. A volte è solo gestuale, è un gioco di sguardi, più spesso è la parola, la lingua. Prima si impara a salutare, a chiedere indicazioni e a ringraziare. Le basi insomma. Se poi si fa amicizia con le persone del luogo, è facile passare dall’abc ai modi di dire (e alle parolacce, almeno da giovani).
Insomma, il linguaggio è fondamentale per conoscere un nuovo mondo e capirlo al meglio: “Tra i codici animali e i molti codici non verbali o artificiali foggiati dall’uomo, la classe delle lingue storico-naturali spicca per peculiarità (lingua), in quanto il complessivo campo semantico di ciascuna di queste lingue (l’insieme delle cose dicibili in una lingua storico-naturale) coincide con la totalità delle esperienze possibili, diversamente da quanto accade per ogni altro tipo di codice, sia animale, sia foggiato artificialmente dall’uomo. Tale possibilità di individuare ogni tipo di esperienza grazie a uno dei segni di una lingua storico-naturale conferisce al linguaggio verbale una vasta gamma di funzioni nella vita individuale e collettiva della specie.”
Ogni lingua contiene l’insieme di tutte le possibili esperienze conosciute dagli uomini che la parlano. Questo vuol dire che lingue diverse contengono esperienze diverse, alcune sono simili, altre proprio non esistono in una o un’altra lingua. Viaggiare tra le parole, quindi, ci permette di conoscere più a fondo una persona, di capire come pensa, e cosa è importante per lei.
Quando chiudiamo gli occhi sogniamo, a volte sono belli, altre sono cattivi, da farci svegliare nel cuore della notte con i sudori freddi, di alcuni, al risveglio, non serbiamo alcun ricordo. Eppure in italiano, i sogni hanno un nome solo quando ci spaventano, li chiamiamo Incubi. In Bantu ( nome che si riferisce a un vasto gruppo etno-linguistico che comprende oltre 400 etnie dell’Africa subsahariana e distribuite dal Camerun all’Africa centrale, orientale e meridionale), esiste una parola che è l’esatto opposto. Bilita Mpash, indica i sogni meravigliosi. In bantu questa parola è stata anche definita come “uno stato di benessere leggendario, nel quale tutto è perdonato e dimenticato”. Non è semplicemente un bel sogno, è quasi un’esperienza mistica. Se noi diamo valore solo a ciò che ci terrorizza, un indizio della nostra mente che c’è qualcosa che non va, magari il troppo stress, ignorando completamente i picchi di più alta beatitudine, in bantu succede il contrario. Sintomo che le nostre priorità sono diverse.
Ci sono, poi, lingue e culture che mostrano un rapporto stretto con la natura. In Wagiman, una lingua indigena -quasi scomparsa- dell’Australia, esiste il termine Murr-ma, indica “l’azione di camminare lungo il corso dell’acqua cercando qualcosa con i propri piedi”. In Giappone, invece, Komorebi, indica “l’effetto particolare della luce del sole quando filtra attraverso le foglie degli alberi”. In Namibia, nazione situata tra i deserti del Namib e del Kalahari, in lingua Rukwangali (parlata dalla popolazione bantu che residente sulle rive del fiume Okavango) si dice Hanyauku, vuol dire: “camminare in punta di piedi sulla sabbia calda”. Nel nord Europa, Gökotta (svedese), indica “l’azione di svegliarsi all’alba per sentire il primo canto degli uccelli”; Waldeinsamkeit (tedesco), invece, “la sensazione di sentirsi come quando si è soli in un bosco”; in Norvegia, infine, si usa la parola Utepils per dire “stare all’aperto in una giornata di sole, bevendo una birra”.
Altre parole sono più sottili nel loro legame, ma altrettanto profonde e radicate nella storia di un popolo. Prendiamo l’Yiddish, sviluppatasi nel X secolo in Renania, è una lingua germanica del ramo occidentale, parlata dagli ebrei originari dell’Europa orientale. È probabile che tale linguaggio, non troppo antico, sia sorto per evitare le persecuzioni, soprattutto “ad imitazione” delle altre lingue differenti dall’ebraico. È intrinseco nella sua natura, dunque, il legame con la storia del popolo ebraico, con l’antisemitismo, le persecuzioni, l’odio. Per questo il concetto di sfortuna è più forte che in altre lingue. In Yiddish si dice Schlimazel (o Shlimazl), indica “una persona cronicamente sfortunata”. Ma se non bastasse, l’Yiddish distingue tra Schlimazel e Schlemiel, due termini il cui destino in altre lingue, sarebbe probabilmente quello di essere raggruppati sotto goffo, maldestro. Lo schlemiel, infatti, è il classico maldestro, colui che ad esempio fa cadere una tazza di caffè bollente, lo schlimazel, invece, è colui su cui cade il suddetto caffè. È un termine che facilmente si ricollega ad una lunga storia di umorismo ebraico dalla natura fortemente autoironica.
D’ora in poi, dunque, in valigia non potrà mancare un dizionario. E se il tempo per viaggiare fisicamente è poco, anche solo leggere e imparare ci permette di volare con la mente in luoghi sconosciuti. Non si sa mai, potrebbe essere un utile esercizio, per mete future.
Fonti: Enciclopedia Treccani, parole non traducibili 1, parole non traducibili 2
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