di Noemi Calabrese
Su Donald Trump si è già detto tanto. Il 45̊ esimo presidente degli Stati Uniti d’America continua a far discutere. Scelte poco condivisibili e azzardate già a partire dai primi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca che hanno fatto subito riversare per le strade e per le piazze tutti coloro che vedono nelle decisioni di Trump uno squarcio insanabile alla società e alla popolazione americana.
“American First” questo è il motto di Donald Trump. Ma considerando le sue ultime decisioni, verrebbe da chiedersi a quali costi l’America vuole raggiungere i suoi obiettivi e in che modo?
Facciamo innanzitutto una precisazione. Nonostante la continua e pressante ondata di proteste, Donald Trump continua la sua attività di governo e la sua politica firmando una serie di decreti dalle conseguenze allarmanti, non solo per gli USA, ma anche per l’Europa intera. Dunque, anche se molti non condividono questa affermazione, che ci piaccia o no, ma Donald Trump è l’America e, purtroppo, l’America, almeno per il momento, è Donald Trump.
La politica messa in atto dal nuovo inquilino della Casa Bianca è una politica senza riserve che non si lascia influenzare dal malcontento generale. Trump continua ad avere un largo seguito tra coloro che credono, appoggiando le sue scelte, di rendere ancora una volta, come un tempo, grande l’America. Ma a quale prezzo?
Gli Stati Uniti d’America hanno sempre portato avanti una politica incentrata su un forte nazionalismo, ma mai come con Trump questa situazione è andata ad accentuarsi. L’America si chiude in una sorta di isolazionismo, solo in parte in continuità con la storia americana.
Ad appena una settimana dall’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha mantenuto la parola fatta ai suoi elettori. Chi pensava che gli eccessi verbali e le idee controverse di Trump fossero solo frutto di una propaganda anticonvenzionale, dovrà rivedere le proprie idee.
Il fil rouge che lega i provvedimenti del neopresidente americano potrebbe rivelarsi a lungo andare pericoloso sotto ogni punto di vista. Per prima cosa, va notato l’attacco continuo di Trump alle istituzioni e agli organismi che sono in grado di ostacolare il suo programma di governo.
Questo atteggiamento è iniziato con un attacco a colpi di tweet, e non solo, ai mezzi d’informazione che Trump aveva ampiamente criticato durante la campagna elettorale, arrivando perfino a definire i giornalisti “gli esseri umani più disonesti”. Nello stesso mirino erano finite anche le agenzie d’intelligence, non solo non tenute in considerazione (si veda la decisione di un attacco delle forze speciali in Yemen presa il 29 gennaio senza la consultazione di nessun funzionario dell’intelligence), ma perfino tacciate di svolgere il loro lavoro usando “tattiche naziste”. Affermazioni spregiudicate che lasciano basiti. Naturalmente il comportamento di Trump non vuole giudicare l’operato della stampa o dell’intelligence ma solo metterne in dubbio la legittimità e screditare la loro immagine di fronte all’America intera.
Un altro colpo basso è stato inflitto all’amministrazione federale americana. Il Presidente Trump ha chiesto a molti funzionari di rassegnare le dimissioni. Inoltre, ha rimosso molti funzionari da incarichi di cui la politica americana è rimasta da sempre immune: il rilascio dei passaporti, l’emissione di visti o green card. Ma quello di cui tutti i giornali hanno discusso è certamente il decreto sull’immigrazione che ha portato al licenziamento di Sally Yates, ministra della giustizia ad interim, che si è vista esautorata dal proprio per ruolo per aver messo in dubbio la validità del decreto emanato da Donald Trump il 27 gennaio scorso.
Il discutibilissimo decreto sull’immigrazione, il Muslin Ban ( la messa a bando degli islamici) è stato emanato dal neo presidente ad appena una settimana dal suo ingresso in Casa Bianca per impedire l’ingresso nel paese di “terroristi stranieri”. Nello specifico, il provvedimento blocca per 120 giorni l’ingresso negli Stati Uniti per i rifugiati (per i siriani a tempo indeterminato) e sospende per 90 giorni l’ingresso di tutti i cittadini provenienti dai paesi a maggioranza musulmana: Iraq, Siria, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Nello stesso tempo ha firmato un decreto che prevede la costruzione di un nuovo muro al confine con il Messico.
La stampa internazionale ha fatto subito notare che il decreto di Trump non colpisce i paesi mediorientali dove il presidente ha interessi economici. La giornalista sudanese Nesrine Malike, denunciando l’arbitrarietà del decreto sull’immigrazione, fa notare che proprio perché il Sudan è un paese povero, non ha nessun valore strategico per Trump.
Il decreto ha provocato un vero e proprio caos, causando blocchi e proteste in ogni parte dell’America. La gente è stata bloccata all’aeroporto e informata dell’impossibilità di rientrare negli Stati Uniti dove ha lasciato una casa, una famiglia, un fidanzato, i propri studi o un lavoro.
Un dettaglio da non sottovalutare riguarda il fatto che durante la fase di preparazione del decreto, i funzionari del dipartimento di stato, del dipartimento della sicurezza nazionale e dell’agenzia del controllo delle frontiere, sono stati tenuti all’oscuro. E la cosa stupisce se si considera il fatto che queste sono le stesse figure che avranno un ruolo cruciale nell’applicazione del decreto.
Questa emarginazione ha portato come conseguenza naturale alla ribellione di più di mille funzionari del dipartimento di stato che hanno firmato un documento per prendere le distanze dal provvedimento. Ha fatto parlare il caso del giudice federale di Seattle James Robart che il 3 febbraio ha ordinato la sospensione del decreto a livello nazionale, suscitando l’ira di Trump che dal suo profilo twitter ha fatto sapere che l’opinione del giudice “è ridicola e verrà sconfitta”.
Insomma Donald Trump non le manda di certo a dire e continua con virulenza e forza a far valere le proprie ragioni senza preoccuparsi di niente e di nessuno. Trump è sicuro di sé perché sa di avere l’appoggio della maggior parte della popolazione che forse ancora si rende poco conto della portata delle azioni e dei decreti emanati dal loro presidente.
E poi, può fare affidamento su un corpus istituzionale che gli è praticamente devoto, come il suo consigliere Steve Bannon, che è la mente di molti provvedimenti firmati da Trump. Uomo dalle posizioni xenofobe, ambizioso fino al punto di conquistarsi la fiducia del presidente dichiarandosi disposto a fare qualunque cosa avesse promesso ai suoi elettori. L’influenza di Bannon è emersa anche nella scelta fatta da Trump di inserirlo nel consiglio per la sicurezza nazionale, al posto di generali e ufficiali di grande esperienza che si sono visti scavalcati da un politico spregiudicato.
La risposta a Trump potrebbe essere per prima cosa un Europa diversa, unita contro quella che potrebbe diventare una mina vagante, incontrollabile ma influente per gli equilibri politici ed economici europei. Il nostro futuro dipende, almeno in parte, dalle scelte di Donald Trump e degli Stati Uniti. È chiaro che la presidenza di Trump è una sfida complessiva per i Paesi europei che devono reagire nel concreto senza lasciarsi intimidire. L’atteggiamento della premier inglese Theresa May, incauta e indecisa, rappresenta soltanto il primo campanellino d’allarme. Il primo ministro britannico ha stretto la mano al Presidente neo eletto qualche giorno prima dell’approvazione di un decreto che condannava milioni di persone, per poi fare marcia indietro, sotto la pressante ondata di malcontento generale, per dichiarare di non “essere d’accordo” con il divieto, come se il provvedimento non la riguardasse.
Un atteggiamento conciliante, ma forse è meglio che l’Europa si guardi bene dal “pericolo” Trump e che metta in campo al più presto soluzioni concrete per la salvaguardia nazionale ed europea. L’Europa ha intenzione di restare divisa e guardinga come finora?
Nel frattempo, l’America si divide: è arrivato un diavolo alla guida del paese o un salvatore della patria?