Ogni gruppo sociale si costituisce anche grazie ad un patrimonio di convinzioni condivise. Non solo quelle religiose e morali ma anche, spesso e soprattutto, quelle culturali: gli elementi, in particolare, che definiscono l’uomo come superiore rispetto a chi lo ha preceduto, ad altri gruppi sociali. Ciò che lo qualifica come essere dotato di pensiero, di originalità, di elaborazione complessa, che lo rende cosciente di sé stesso, della propria storia, e desideroso di tramandarla.
A queste caratteristiche rispondono in particolare i miti, le leggende, le grandi vicende epiche: cos’altro sono se non rivendicazioni di civiltà e quindi di umanità? Spesso straordinarie, complesse, originali, a volte spiazzanti.
Gli occidentali sono storicamente abituati a considerarsi i padri della cultura. Fin dai banchi di scuola si insegna che – fatto salvo qualche geroglifico – è con i Greci, Omero ed Esiodo, che nasce l’epica e da lì la nostra civiltà, ciò che siamo e che ci definisce.
Ma in quanti abbiamo sentito parlare di Gilgamesh?
Probabilmente, pochissimi. Eppure è proprio Gilgamesh di Uruk il primo eroe tragico di cui la storia dia notizia. Molto prima di Omero, dei tragici greci e latini, forse persino delle redazioni bibliche. Un’epoca che si perde nella notte dei tempi, al confine della conoscenza, nel terzo millennio avanti Cristo. Benchè la redazione finale delle vicende del Re semidivino Gilgamesh e del compagno Enkidu risalga “solo” all’epoca dei più antichi sumeri e la scoperta delle tavolette che la riportano appena a 1839, è qui che potremmo trovare le nostre radici. Nelle pagine del poema noto come Epopea di Gilgamesh (Adelphi, a cura di N.K. Sanders, 1986) risuonano le voci di Omero, di Dante, persino l’Antico Testamento.
Gilgamesh e Omero
Almeno un millennio e mezzo prima delle vicende di Achille e di Ulisse leggiamo di Uruk, la città dalle forti mura e del suo Re, Gilgamesh, bello e nobile, inevitabilmente l’uno e l’altro insieme. Kalos kai agathos, come vuole l’iconografia greca. Per due terzi dio e per un terzo uomo, figlio della dea Ninsum, come Achille, figlio della dea Teti.
Questo sovrano saggio incute timore, perchè è un uomo rabbioso e fumantino, spesso prevaricatore. Non conosce pietà per i genitori o per i consorti, che priva di figli e di mogli. Come Achille ne priva i troiani, senza pietà per il supplice ettore e per i vecchi Priamo ed Ecuba. A vegliare su di lui ci sono gli dei: Istar, dea di guerra e amore, come Afrodite, Kur, re degli Inferi, Ade marito di una Persefone che si chiama Ereksigal, rubata alla terra e che tuttavia non ha madri che ne reclamino il ritorno.
Per alleviarne la solitudine, gli dei creeranno per lui il forte Enkidu, nato fra le bestie e reso “saggio” dall’amore di una prosituta, allegoria stessa del passaggio dallo stato preistorico a quello civile. Per questo giovane – il suo Patroclo – il re Gilgamesh proverà “amore come per una donna” e ne farà il proprio confidente e fratello.
Assieme a lui partirà per un viaggio alla ricerca di gloria e onore, divenendo da Achille, Ulisse. Incontrerà e sconfiggerà infatti il gigante Humamba, personificazione del male col suo “occhio di morte”. Sfuggirà alle lusinghe della Dea Istar, che lo vuole in sposo ma come Circe trasforma gli uomini in bestie. Riuscirà nel suo intento, ma la morte di Enkidu, come Patroclo per Achille, lo renderà pazzo di dolore, e non più desideroso di vivere. Così dovrà intraprendere un viaggio negli inferi, per “chiedere dei vivi e dei morti” come Ulisse in cerca di Tiresia.
Gilgamesh e Dante
Il viaggio, dopo la foresta dei cedri su cui Hubamba faceva la guardia, lo porta in una nuova selva. All’interno di essa un monte da cui nascono i sogni, dietro le cui spalle il sole cala. Proprio come nella selva oscura dantesca. Qui vi si trovano, secondo una versione del poema, il leone, la sfinge, e il grifo-acquila, le sue tre fiere. L’Aldià è l’obiettivo finale del suo viaggio.
Vi giunge attraversando il fiume della morte, con un cencioso nocchiero, Urshanabi, che di Caronte non ha soltanto gli “occhi di brace”. L’aldilà è l’ultima meta, la ricerca della vita eterna. Colui che incontra, Utnapshtim, lo invita a tornare indietro, per “mantener sani i suoi affetti”, per usare le parole di Dante. Ma Gilgamesh si spinge oltre sé stesso. La sovranità non gli basta. Ma la vita eterna non è ciò che è stato stabilito per lui, e questa ybris gli sarà fatale.
Gilgamesh e la Bibbia
Per giungere a porre le proprie domande, Gilgamesh deve passare anche attraverso un giardino lussureggiante, sede degli dei. Un paradiso terrestre, dove sorge l’aurora. “Un giardino all’Est, in Eden”, si dice nella Genesi. E l’ultimo uomo che incontrerà, Utnapshtim, nella sede degli dei, non è che un altro Noè.
Viene infatti portato in quel luogo meraviglioso dagli dei, dopo aver radunato dentro ad un’arca con sette ponti tutta la propria famiglia e “il seme di ogni animale”, per scampare a un diluvio, voluto dagli dei adirati con gli uomini. Un diluvio durato sette giorni anziché quaranta, dopo i quali, per verificarne la fine saranno liberati prima una colomba e poi altri uccelli. Proprio come nel racconto biblico.
Tanto gli aedi greci che i semiti che per primi redassero i rotoli biblici verosimilmente sono venuti in contatto con le ultime redazioni del poema di Gilgamesh, a loro coeve. Le prime hanno però radici accertate molto più antiche. Noi occidentali, certi della nostra centralità, lo siamo tanto da non doverci considerare tutti “figli” di Gilgamesh, Enkidu e della loro epopea?