L’età contemporanea sta facendo sì che, almeno potenzialmente, possiamo divenire tutti degli artisti. L’aiuto arriva sia per quanto concerne la reperibilità dei mezzi di produzione, sia per il sempre più facile approdo ai modelli da seguire. Se nei secoli scorsi la formazione di un bagaglio tecnico e conoscitivo richiedeva un duro lavoro di ricerca davanti alle opere, oggi possiamo trovare pressoché l’intera storia dell’arte sul nostro PC. Volendo essere pigri. Questo certo non esclude che un buon pittore o sculture non debba esimersi dal dipingere o dallo scolpire quadri e busti per divenire un perito ma, se alcune avanguardie e certa arte contemporanea possono insegnarci qualcosa di primo acchito, questo è sicuramente che i concetti hanno superato la forma, le idee la capacità.
Se ancora in pittura o in scultura abbiamo l’operare di una piccola parte, nonostante quanto appena detto, questo elitismo non vale certo per la fotografia. La fotografia, dalla sua scoperta fino a oggi, è progressivamente entrata nelle vite di ogni ceto della società sino a terminare oggi nelle nostre tasche con i cellulari più moderni. Il tutto in tempi brevissimi. Dal lavoro dei primi pionieri, alle macchinette usa e getta fino agli smartphone.
Questa eccessiva diffusione del mezzo fotografico, quando avrebbe benissimo potuto contribuire a un innalzamento qualitativo delle produzioni, ha finito con l’abbassarlo. Ogni giorno viene prodotta moltissima fotografia, ma praticamente nessuna foto può essere detta valevole. Girano nelle nostre vite enormi quantità di foto non notevoli e non sono mai note quelle notevoli.
Questa “fotografia facile” che realizziamo con gli smartphone ha nel suo largo consumo pochi elementi di novità. Piuttosto, si radicalizza in standard fissati dalle mode, si conforma a un genere che tutta la società segue. Quindi negli anni passati la classica stucchevole foto al monumento, oggi il dilagare del selfie.
Anche in questo campo siamo inevitabilmente omologati, come sosterrebbe Pasolini, schiavi di realizzazioni facili figlie di un dilagante narcisismo, inutile nascondersi. Non a caso, quei fotografi che ancora oggi si dedicano a questa pratica sforzandosi di intenderla come arte, ripudiano i già banali e consumati mezzi della modernità a favore di strumenti più datati e forme superate.
Una fotografia prima pensata e poi realizzata, magari in bianco e nero, genesi di continue prove ed esperimenti come se si disegnassero infiniti bozzetti. Un motivo di questa qualità sempre più scarsa e facilità sempre più soddisfacente può essere attribuito a uno scarso confronto su quanto prodotto o meglio su un confronto acritico e ipocrita.
Uno dei mezzi di maggior diffusione della fotografia oggi sono i social e tra questi ce ne è persino uno apposito: Instagram. Questo supplisce a palesi mancanze tecniche con i suoi innumerevoli filtri e le sue regolazioni, rendendo accettabili, almeno qualitativamente, foto sconclusionate.
Quello che è ancora più grave è che il social vive di un malsano meccanismo di “mi piace”, un mercato nero di scambi dove “io ne concedo uno a te, tu ne concederai uno a me”. Questa elemosina compulsiva ruota tutta intorno a un meccanismo per cui tanto le mie foto saranno apprezzate, tanto io sarò popolare, anche se, nel caso, penso non si arrivi nemmeno ai “15 minuti” promessi da Warhol.
Tutte queste fotografie sono giudicate “piacevoli” secondo un metodo che non giudica la qualità, in quanto morboso. Il “mi piace” non dice “sei un grande fotografo”, chiede solo una conferma di mediocrità a sua volta. Eppure rischia di farlo credere!
Oggi solo qualcuno conosce gli autoritratti del Parmigianino o quello celato del Raffaello nella Scuola di Atene. Eppure tutti, come le pecore, siamo prostitute nel dare quel click a un qualsiasi selfie (che altro non è che l’autoritratto in chiave moderna) sperando nella ricompensa di una notorietà che ci catapulti nel nulla di questa massa dei social media.
Un meccanismo che non solo ci prende in giro e ci rende cinici, ma soprattutto insensibili. E questo non va bene.
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