Caso Allevi: il delitto del bitter

Sono le 16 di un tranquillo pomeriggio di agosto del 1962 e ad Arma di Traggia, in provincia di Imperia, l’aria è satura di afa e calore. Il campanello di casa Allevi suona, è l’anziana postina del paese che ha una raccomandata per Tranquillo, detto Tino.

La moglie, donna piacente e curiosa, ritira il pacchetto e non resiste alla tentazione di aprirlo. Si tratta di una vecchia e anonima scatola in latta per biscotti, piena di trucioli per proteggere una bottiglietta chiusa con un tappo in sughero. Sul vetro c’è attaccata con del nastro adesivo una rudimentale etichetta “Bitter Analcolico San Pellegrino”. All’interno della scatola c’è anche un biglietto che recita così: “Caro signore, poiché avremmo intenzione di lanciare sul mercato questo nuovo aperitivo, offrendole la rappresentanza nella sua zona, ci permettiamo di disturbarla con l’invio di un campione. Provi ad assaggiarlo. Un nostro incaricato verrà a trovarla per conoscere il suo parere. Vogliamo sapere se è di suo gusto e se l’ha trovato gradevole al palato”. Una firma illeggibile sigla il messaggio.

Ma chi è Tino Allevi, il destinatario del pacchetto? È un cinquantenne originario di Pavia, trasferitosi in quella zona da ragazzo, nello specifico a Morghengo (Novara), dove la famiglia gestisce una tenuta agricola. Dopo il matrimonio ad Arma di Taggia, intraprende un’attività tutta sua diventando grossista caseario. Il misterioso pacchetto lo entusiasma subito e pensa con avarizia ai soldi che avrebbe potuto guadagnare e alla possibilità di allargare la sua attività. L’aperitivo viene riposto in frigorifero fino al pomeriggio seguente, il fatidico 25 agosto.

Tino decide di assaggiare la bevanda insieme a due amici fidati, Arnaldo Paini e Marcello Allegranza: i tre brindano alle fortune future. Tino Allevi ingoia delle sorsate generose, si accorge subito che il sapore è amaro e impreca. I due amici si trattengono, hanno giusto il tempo di scherzare per pochi secondi prima che Tino cada a terra rantolando e contorcendosi. Poche ore più tardi muore: la causa è avvelenamento da stricnina.

Il bitter mortale è stato spedito da Milano. Gli agenti incominciano a scavare nella vita di quell’anonimo grossista di formaggi, ma soprattutto in quella della moglie. Le indagini conducono a Barengo, piccolo comune del novarese. Lì abita Renzo Ferrari, veterinario ed ex amante della signora Allevi. Tino conosceva bene le scappatelle della moglie, che una volta trasferitasi ad Arma di Traggia trova un nuovo amore extraconiugale e proprio questo avrebbe suscitato la sete di vendetta dell’ex amante. Interrogato in una trattoria il veterinario Ferrari tranquillamente confessa il delitto mentre mangia un piatto di spaghetti. A incastrarlo definitivamente è la macchina da scrivere Lexicon 80 con cui aveva scritto il biglietto e le sei fiale di veleno acquistate pochi giorni prima del delitto nella farmacia di Momo: il delitto del Bitter è passionale e il colpevole ha finalmente un volto e un nome. Dopo le consuete udienze, la Cassazione confermò la pena e Ferrari fu condannato all’ergastolo. Nel 1986 Ferrari fu graziato, morirà due anni dopo.


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