Un articolo difficile, difficilissimo, quello che ci accingiamo a scrivere. Partiamo da qualche cenno biografico sull’autore. È un inizio poco coraggioso, ce ne rendiamo conto, ma non potremmo fare altrimenti. Lasciateci entrare un attimo nella storia, permetteteci di partire da lontano, di girarci un po’ intorno, di trovare un punto e poi faremo entrare anche voi, promesso.
Dunque, l’autore: Raymond Queneau, scrittore, poeta, drammaturgo francese del Novecento. Lettore accanito di Apollinaire, Poe, Rimbaud, Verlaine ma appassionato anche di avanguardie, di dadaismo, di psicoanalisi. Un intellettuale, dunque. Amante della cultura e dalla cultura amato, come ogni intellettuale che si rispetti.
Potremmo andare avanti e raccontare del suo incontro con Prévert, della sua passione per Joyce, della sua collaborazione con Gallimard, ma annoieremmo voi e mentiremmo a noi stessi, oltre al fatto che non potremmo più ricorrere a comodi eufemismi per descrivere il nostro stato, e da non coraggiosi diventeremmo pusillanimi.
Abbiamo pensato, scritto e riscritto queste poche righe di presentazione, di introduzione, di ingresso in un’opera così particolare, e poi abbiamo cancellato tutto. La verità è che erano righe brutte, parole banali messe in fila in un modo ancora più banale. E dopo averci perso del tempo, dopo esserci incaponiti, abbiamo deciso di optare per un taglio netto: via l’introduzione, via la presentazione, nessun tappeto rosso per questo ingresso, solo una porta, una piccolissima porta con una chiave e la scritta “Entrata” in grassetto, a caratteri cubitali. Prego, quindi.
Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito». Gli fa vedere dove (alla scian-cratura) e perché.
Questa la trama, che inizia e si esaurisce qui, non una parola di più. Una scena di vita quotidiana, tutto qui. Ma in fondo, lasciateci la soddisfazione di dirlo – almeno per questo libro –, poco importa la trama. Perché Esercizi di stile non è un libro dinamico sul piano narrativo, lo è solo e unicamente sul piano della lingua, della grammatica. È un vero e proprio elogio della grammatica, anzi. E in Italia abbiamo la fortuna di leggerlo in una traduzione che non solo rende giustizia, ma che forse supera anche l’originale: quella di Umberto Eco.
Ma comunque, voi continuate a non capire e avete ragione. Davvero, dateci ancora un minuto. Dunque, abbiamo riportato il brano iniziale. Bene, il traffico non cesserà, il tipo di ventisei anni non invecchierà e il suo collo non si accorcerà, il suo vicino non risponderà alle provocazioni, il suo amico non sarà il coprotagonista e, soprattutto, il suo soprabito non avrà mai, mai un bottone in più.
Chiarito questo, riportiamo il terzo brano:
Non s’era in pochi a spostarci. Un tale, al di qua della maturità, e che non sembrava un mostro d’intelligenza, bor-bottò per un poco con un signore che a lato si sarebbe comportato in modo improprio. Poi si astenne e rinunciò a restar in piedi. Non fu certo il giorno dopo che mi avvenne di rivederlo: non era solo e si occupava di moda.
E il diciassettesimo:
In una trafficora mi buspiattaformavo comultitudinariamente in uno spaziotempo luteziomeridiano coitinerando con un lungicollo fioscincappucciato e nastrocordicellone, il quale appellava un tiziocaiosempronio altavociando che lo piedipremesse. Poscia si rapidosedilizzò. In una posteroeventualítà lo rividi stazioncellonlazzarizzante con un caiotizionio impertinentementenunciante l’esigenza di una bottonelevazione paltosupplementante. E gli perchépercomava.
E il quarto, uno dei più belli:
Ridicolo giovanotto che mi trovavo un giorno su di un autobus gremito della linea S, collo allungato, al cappello una cordicella, notai un. Arrogante e lagrimoso con un tono, che gli si trovava accanto, contro questo signore pro-testa lui. Perché lo spingerebbe, volta ogni gente che la scende ne. Libero siede si precipita un posto sopra, questo detto.
Anche qui, potremmo andare avanti a lungo. E sarebbe certamente molto più comodo per noi e senza dubbio più bello per voi se questo articolo consistesse unicamente in un umile, devoto e banale copia-incolla dell’intero libro. Ma se possiamo accettare di essere pusillanimi, non possiamo permettere che ci venga attribuita poca fantasia. Dunque, troviamo questo benedetto punto.
Prima però vi chiediamo di tornare su e rileggere i brani che abbiamo riportato di seguito, senza soffermarvi sulle banalità che abbiamo inserito tra un testo e l’altro. Chiaramente si tratta della stessa storia (giusto? Se non torna rileggete). Ma non c’è uno sviluppo narrativo, come abbiamo già accennato: non succede letteralmente nulla sul piano del racconto, non esiste uno spessore psicologico né un’evoluzione dei personaggi. Quali personaggi, poi? Un uomo senza nome di cui sappiamo solo che si trova sulla metro, che ha il collo troppo lungo, che ha un carattere litigioso e che al suo soprabito manca un bottone.
Ma tutto questo non importa, Queneau non vuole raccontare cosa fa questo personaggio, ma come lo fa. O meglio, vuole affrontare tutti i modi per descrivere ciò che il suo uomo fa.
E di modi, per l’esattezza, Queneau ne ha trovati novantanove. Che vanno dal banale racconto in prosa, alla metafora, alle litoti, al sogno, a un’esplosione di colori con quello che lui definisce un racconto-arcobaleno:
Mi trovavo sulla piattaforma di un autobus violetto. V’era un giovane ridicolo, collo indaco, che protestava contro un tizio blu. Gli rimproverava con voce verde di spingerlo, poi si lanciava su di un posto giallo. Due ore dopo, davanti a una stazione arancio. Un amico gli dice di fare aggiungere un bottone al suo soprabito rosso.
E poi gli omoteleuti, le sorprese, i pronostici, l’animismo, le immancabili onomatopee, ancora l’analisi logica, i poliptoti, tutti i tempi dell’indicativo, un racconto scritto a mo’ di canzone…
Ecco il trionfo della lingua di cui parlavamo poco fa. Uno scherzo, un libro surreale, una storia inesistente se non in una chiave prettamente morfologica, buffa, strana e geniale. Un racconto declinato in tutte le figure retoriche, in tutte le prospettive, in tutti i tempi e modi possibili.
Un racconto che non merita neanche di essere chiamato tale in quanto di fatto non racconta nulla, se non la ricchezza di una lingua (il francese in questo caso, ma anche l’italiano).
L’intero libro non è altro che un banale esercizio di stile portato avanti fino all’inverosimile, quasi paradossale, ai limiti dell’iperbolico. E per apprezzare Esercizi di stile bisogna amare – e conoscere un pochino – gli esercizi di stile (perdonate il gioco di parole), altrimenti risulterà un noioso e inutile elenco di parole apparentemente prive di senso logico. Ma per chi si diletta con gli esercizi di stile, a chi piace il genere insomma, si divertirà a ritrovare nel testo figure retoriche, modi di dire, sfoglierà il libro sorridendo a ogni pagina e alla fine si sentirà come chi ha mangiato un cioccolatino buonissimo, fondente, dolce, squisito in un solo morso e adesso è pentito di non aver aspettato, di essere stato ingordo e di non esserselo gustato.
Ma la verità è che Esercizi di stile va divorato esattamente come se fosse un cioccolatino, non c’è bisogno di indugiare troppo sulle singole pagine perché non c’è niente da capire, la fruizione è immediata, leggera, irriverente, rapida. Ed è talmente appagante che si perdona all’autore anche la ridondanza, la ripetizione, la cocciutaggine di portare il suo lettore fino allo sfinimento, diciamo. Come gli si perdona l’ostentazione della cultura, lo sfoggio della propria conoscenza, l’egoismo di aver scritto un’opera non per dilettare gli altri ma unicamente se stesso (o almeno, ci piace pensarlo), la tracotanza, ossia la presunzione di aver pensato che bastasse prendere carta, penna e dare libero sfogo ai propri pensieri, per scrivere un libro.
Basta? Non lo sappiamo. Noi, da amanti di quasi ogni tipo di esercizio di stile, propendiamo per il sì. E perdoniamo all’autore l’ostentazione, lo sfoggio e l’egoismo. Ma soprattutto gli perdoniamo la tracotanza, che contribuisce a rendere l’opera veloce, irriverente e ironica, con quel pizzico di presunzione che, a nostro avviso, è assolutamente delizioso.
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