Era prevedibile: nonostante lo spauracchio del ritiro dalle scene di Miyazaki, lo Studio Ghibli non sembra avere intenzione di chiude i battenti: recentemente ha partecipato nella produzione artistica ed esecutiva di un film che ha del potenziale da Oscar, e che ha già vinto il premio della giuria nella sezione Un certain régard del Festival di Cannes: è La tartaruga rossa.
Il film è il primo lungometraggio dell’illustratore olandese Michael Dudok de Wit, famoso nel suo ambito di appartenenza ma non altrettanto nella cinematografia, nonostante abbia già vinto un Oscar nel 2001 per il miglior corto animato, Father and Daughter. Così lo studio, dopo esser venuto a conoscenza della sua idea di un nuovo lungometraggio e riconoscendo il suo potenziale, ha deciso di collaborare con il regista, il cui lavoro è stato supervisionato da nient’altro che Isao Takahata in persona. Una presenza importante dunque, che però non ha voluto imporsi sul regista, lasciandogli piena libertà, e creando una collaborazione aperta.
Tutto ciò ha portato a una produzione nippo-francese che ha però una chiara impronta ghibliana. La storia infatti tratta la parabola umana di un naufrago che, in balia di una tempesta viene sopraffatto dal mare ed è costretto a cercare rifugio su un’isola. Poiché però non considera questo come il suo ambiente naturale, cercherà di scappare per tornare alla civilizzazione. I vari tentativi però falliranno, poiché una strana tartaruga rossa gigante distruggerà tutte le sue zattere, costringendolo a tornare indietro per fare i conti con la natura stessa.
È dunque evidente la tematica portante del lungometraggio, ovvero quella ecologista, tanto cara e molte volte rappresentata dallo studio giapponese, e in particolare dal suo fondatore Hayao Miyazaki. L’obiettivo del film è infatti mostrare il progressivo riavvicinamento di un uomo qualsiasi alla natura, dapprima considerata estranea, quasi ostile, e poi sempre più evidentemente congeniale alla vita umana.
Seguiamo così un nuovo Robinson Crusoe nel suo percorso di adattamento alla vita dell’isola, ma senza soffermarci sulle sue capacità di sopravvivenza o i suoi ragionamenti, che nel libro di Defoe sono invece centrali, avendo come obiettivo quello di mostrare l’adattabilità e le numerosissime capacità della borghesia del tempo. Nel caso della Tartaruga rossa il nostro Robinson deve se mai conoscere un adattamento emotivo: inizialmente sopraffatto dalla vastità e dall’onnipotenza naturale, è come annichilito di fronte a una natura che gli sembra ostile, e che invece semplicemente non comprende. Il protagonista infatti non comprende le azioni della tartaruga, tanto che sarà portato a un gesto estremo che determinerà il punto di svolta della sua vita sull’isola.
Inoltre, a differenza del Robinson originale, il nostro non è assolutamente connotato in alcuna maniera: sappiamo di lui solo che è un uomo, di cui possiamo intuire la razza, ma niente di più. Ciò è dovuto non solo alla scelta di non dare alcuna informazione circa la vita prima dell’isola del protagonista, ma soprattutto all’assenza totale dei dialoghi. Il lungometraggio è infatti praticamente muto, fatta eccezione per le urla e gli affanni del protagonista, e la colonna sonora.
Questa scelta singolare – e particolarmente azzeccata – è stata dettata dalla volontà del regista di universalizzare la storia: non connotando specificamente il protagonista, la metafora è intatta e inattaccabile. Essa presenta un ecologismo puro, non inquinato da ragionamenti umani e sociali, ma semplicemente volto alla convivenza pacifica e armoniosa con la natura, che si rivelerà infine madre e protettrice della vita umana, anche quando sembrerà minacciarla apertamente.
Il regista è riuscito dunque a ottenere un film epurato da qualsiasi ideologia e che, però, riesce a farci riflettere sulla possibilità della convivenza dell’uomo con la natura, ora più che mai che sembra essere un tema da affrontare necessariamente. E dunque, è possibile effettivamente vivere in comunione con la natura senza cercare di sottometterla?
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