Tra i più acclamati e prolifici autori statunitensi, Philip Roth non è estraneo alle rappresentazioni cinematografiche delle sue opere: La ragazza di Tony (1969 tratto da Addio, Columbus, novella nel libro d’esordio di Roth), Se non faccio quello non mi diverto (1972, basato sul romanzo Lamento di Portnoy), The Chosen (1981), La macchia umana (2003), Lezioni d’amore (2008, basato sul romanzo L’animale morente), The Humbling (2014, basato sul romanzo L’umiliazione).
Durante il 2016 ben due opere di Roth hanno raggiunto il grande schermo. American Pastoral usciva il 20 ottobre 2016 in Italia, e a luglio negli USA le sale avevano già accolto Indignation. In entrambi la famiglia, le aspettative, le norme della società e come violarle, la guerra (nel primo viene portata letteralmente dentro casa, nel secondo è quella in Sud Corea), sono il nucleo centrale della storia.
Ma cominciamo da American Pastoral, film fortemente voluto da Ewan McGregor che ne è sia interprete che regista (al suo esordio), si basa sull’omonimo romanzo del 1997, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa del 1998. È la dissacrante descrizione della disintegrazione del sogno americano nel 1960. Soprattutto, se il punto di vista è quello di Seymour Levov (Ewan McGregor), detto “lo svedese”, un ragazzo ebreo del New Jersey con una vita apparentemente perfetta. Finché non dà alla luce una figlia, che fin da piccola entra in contrasto prima con la madre, la bellissima Dawn Dwyer (Jennifer Connelly), ex Miss New Jersey, poi con il padre. È lui stesso, “lo svedese”, l’uomo dai mille talenti, gentile, di successo, a suggerirle di portare la guerra in casa, quando la sua piccola Merry (Dakota Fanning) ormai sedicenne, diventa sempre più ribelle e politicizzata e si unisce all’organizzazione politica di estrema sinistra dei Weathermen. Ma la fine, l’esplosione totale dei ogni suo sogno e aspirazione termina quando Merry compie un attentato dinamitardo contro un ufficio postale, uccidendo una persona e dandosi poi alla fuga. È la fine della sua “vita pastorale”.
Un conflitto generazionale, una lotta tra idee e ideali, violenza fisica, psicologica: è la peggior lezione che la vita possa impartire, quella che la vita, in realtà, non ha senso. Karma, giustizia, sono concetti astratti, alienanti. Non c’è certezza, c’è solo caos.
Lo stesso caos che invade la vita di Marcus Messner in Indignation, omonimo romanzo del 2008. Scritto e diretto da James Schamus, sceneggiatore al suo esordio alla regia, il film è ambientato nel 1951 durante il secondo anno della guerra di Corea. La storia è narrata dallo stesso Marcus (Logan Lerman), uno studente universitario di Newark, nel New Jersey, che per sfuggire all’ansia del padre si rifugia nel Winesburg College in Ohio. Il padre, macellaio kosher, era stato una persona amorevole per la maggior parte della vita di Marcus, ma pian piano, con l’arrivo della guerra e la morte di tanti coetanei del figlio, comincia a perdere la testa. È paranoico su tutto, tanto da allontanare prima il figlio, e poi anche la moglie. Marcus però, ha un altro problema, è un ebreo ateo in una scuola cristiana, in cui vige la frequenza obbligatoria della cappella del college. Il conflitto di Marcus non è più solo quello con il padre, ora si aggiunge anche quello con Hawes Caudwell (Tracy Letts), il rettore. Durante un loro incontro, il giovane cita ripetutamente un saggio di Bertrand Russell, Perché non sono cristiano:
[…] Non sono cristiano: in primo luogo, perché non credo in Dio e nell’immortalità; e in secondo luogo, perché Cristo, per me, non è stato altro che un uomo eccezionale.
Sono entrambe storie di conflitto, di guerra, di drammi famigliari, sono entrambe storie di Philip Roth, e solo questo dovrebbe dire che sono belle storie. Ironiche, interessanti, spesso dissacranti… da vedere, o da leggere.