Reddito di cittadinanza: la proposta del M5S

Eravamo nel 2013 quando Beppe Grillo stipulava i 20 punti del programma del Movimento 5 Stelle, dove al primo posto era scritto “Reddito di Cittadinanza”. Per quale motivo è errata questa terminologia rispetto alla loro proposta e in cosa consiste saranno i due temi principali di questo articolo.

Innanzitutto è necessario fare chiarezza tra il reddito di cittadinanza, distribuzione monetaria priva di distinzioni rifiutata dagli svizzeri nel referendum del 2016, e reddito minimo garantito, ovvero un’erogazione più simile a un sussidio di disoccupazione. Il primo è una pratica totalmente in disuso in Europa, che consiste in un finanziamento a intervallo di tempo regolare distribuito a tutti coloro dotati di cittadinanza e residenza, costante e continuativo. Per quanto si possa dire che non faccia distinzione di natura religiosa, sociale o lavorativa, va sicuramente contro il principio marxista “da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni”, in quanto fornirebbe un salario tanto a Lapo Elkann quanto a un disoccupato, se entrambi potessero dimostrare di essere cittadini residenti in Italia. Basta aggiungervi, per definire quest’idea impraticabile che, secondo uno studio, un reddito di cittadinanza pari a 500 euro per tutti i cittadini italiani di età superiore ai 18 anni costerebbe circa 300 miliardi, il 20% del PIL italiano.

È chiaro che il M5S non vuole proporre, nonostante una serie di dichiarazioni imprecise e non coerenti, in particolare da parte dello stesso Grillo, un reddito di cittadinanza in quanto tale, bensì vuole portare agli occhi dell’Italia un’idea già vista nel panorama europeo, che si presta alle esigenze del Belpaese: il reddito minimo garantito. Questa forma di assistenza economica alla popolazione in età lavorativa, consiste nello smistamento monetario sino a un limite prefissato, la soglia di povertà, ed è integrabile con altri introiti sino al raggiungimento della stessa. Può essere vincolato a una serie di obblighi, e quindi più versatile per una qualunque società, come la sospensione del reddito nel caso di tre rifiuti di posti di lavoro consecutivi, o la certificazione di aver speso almeno due ore della propria giornata alla ricerca di un lavoro. Quest’ultimo sistema avrebbe sicuramente un costo inferiore. Si stimano circa dai 16 ai 18 miliardi di euro annui a fronte di un reddito di 780€ mensili, ovvero quelli proposti dal M5S, e risolverebbe effettivamente il problema della povertà con un investimento importante, ma secondo alcuni studiosi impraticabile.

Le problematiche con questo sistema sono due: i vincoli da rispettare per beneficiare del reddito e tutto il sistema economico nazionale basato su una serie di sussidi che cercano di sostituire il reddito minimo, ma coprono soltanto il 27% di coloro che vivono con introiti inferiori alla soglia di povertà.
I vincoli non sono da sottovalutare, altrimenti il reddito minimo rischia di essere un forte incentivo all’ozio: per quale motivo se da disoccupato il mio guadagno è di 780€ mensili dovrei accettare un lavoro retribuito meno di 780€? Di fronte a uno stipendio di 850€, perché dovrei lavorare 8 ore al giorno per guadagnare un netto di 70€ piuttosto che passare le mie giornate a casa? È necessario quindi considerare con molta oculatezza gli obblighi legati a questa forma di sussidio, con l’aggiunta magari del salario minimo, per evitare di rendere il nostro Paese una comunità di pensionati ventenni.
La seconda questione nasce di fronte a tutti gli aiuti che lo Stato già offre a coloro che sono sprovvisti di lavoro: sussidio di disoccupazione, cassa integrazione, la NASPI o la SIA, anche se quest’ultima necessita di qualche aggravante alla semplice povertà, con l’aggiunta di alcune misure regionali e provinciali, che rendono il tutto molto complesso ed effettivamente poco efficace.
Le strade sono due: o si sostituisce questa ingarbugliata rete di sussidi con il reddito minimo, cercando di migliorare e rendere attuabile la proposta del M5S, oppure si potrebbe dare credito a una delle teorie economiche più tornate di moda nell’ultimo periodo: l’aliquota negativa di Milton Friedman.
Questa proposta cerca di basarsi su un costo e un principio simile al reddito minimo, cercando però di annullare l’incentivo all’ozio: l’aliquota negativa garantisce fino a una certa soglia un sussidio per ogni euro guadagnato in più, in modo da premiare chi lavora e guadagna di più, ma mantiene la possibilità di essere aggirato dal lavoro in nero, tanto quanto il reddito minimo e il reddito di cittadinanza.
All’apparenza non esiste una soluzione ideale, ma abbiamo la necessità di rivoluzionare il nostro welfare utilizzando e modellando sistemi economici già esistenti sulla nostra struttura.


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