La chiamavano “la malattia dei gay”. Sembrava comparsa dal nulla quando si manifestò anche in America a fine anni ’70, e dall’inizio alla fine del 1981 aveva già mostrato gravi sintomi in 270 persone, di cui 121 decedute nel giro di pochi mesi. Una strana immunodeficienza che uccide lasciando libera azione microbi “opportunisti” normalmente tenuti a bada dai nostri sistemi di difesa, o a sviluppi di forme di tumore normalmente inusuali.
Un lungo periodo di diffidenza e paura nei confronti dei malati, con casi di licenziamenti (come quello documentato nel film Philadelphia) e discriminazioni di persone alle prime manifestazioni esteriori, quali le macchie cutanee dovute al tumore sarcoma di Kaposi. La correlazione fra rapporti sessuali occasionali, scambi di siringhe e contrazione di questo male aveva spinto persino alcuni a considerarla una sorta di punizione divina, un invito alla castità. Tuttavia questa idea sembrava perdere ulteriormente di significato al crescere di persone colpite, tra le quali iniziavano a figurare anche bambini e individui di qualunque appartenenza che avevano avuto bisogno di una trasfusione.
Fu così che si fece strada l’ipotesi, da verificare scientificamente, che i fluidi corporali fossero veicolo di un agente patogeno responsabile dei diversi sintomi, raggruppati sotto il nome di AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita). Un’ipotesi difficile da dimostrare, vista anche la distanza temporale che sembrava esserci fra il contatto con il patogeno e la manifestazione della malattia.
Comune a tutti i casi era la diminuzione quantitativa di un determinato tipo di globuli bianchi (linfociti T CD4+). Per questa ragione, in due laboratori diversi, in Paesi diversi (Francia e Stati Uniti) si ebbe l’idea simile di isolare questo tipo di cellule da pazienti e analizzarne le particolarità.
Così, il primo a identificare quello che oggi chiamiamo HIV, seppure chiamandolo LAV (virus associato a linfadenopatia), fu, nel 1984, il francese Luc Montagnier, Premio Nobel per la Medicina nel 2008.
Sembrava incredibile che potesse trattarsi di un virus a RNA (retrovirus), come emerse, poiché questo tipo di virus era stato fino ad allora osservato molto più spesso negli animali (da qui la suggestione che possa essersi evoluto a causa di episodi di zoofilia), con l’eccezione dell’allora ancora recente scoperta di HTLV-1. A seguire questa pista erano gli studiosi dell’università di Bethesda, Maryland, che isolandolo poco dopo lo nominarono HTLV-3. Fra di essi vi era Robert Gallo, a cui si deve anche l’invenzione della tecnica per identificare la sieropositività (oggi essenziale, se non come strumento di diagnosi, anche per limitare i rischi delle trasfusioni). Ancora però c’era diffidenza e paura, tanto che a metà degli anni ’80, questo studioso fu accusato di avere creato egli stesso il virus, in combutta con l’esercito americano.
Trattandosi di un virus, l’obiettivo verso cui la ricerca è più spinta sarebbe trovare, in affiancamento a miglioramenti nei trattamenti che al momento possono ancora solo rallentare il progredire della malattia, un vaccino. Purtroppo son presenti diversi ceppi dall’evoluzione rapida, perciò il più efficace sinora si è dimostrato funzionare, apparentemente, solo nel 25-30% dei casi.
Fonti
Crediti