Un luogo comune piuttosto diffuso è quello di considerare la musica come quel mezzo artistico (e terapeutico), le cui vibrazioni interagiscono con il nostro campo elettromagnetico, influenzando il nostro organismo e gli stati d’animo: ma se fossimo noi, con i nostri affetti e parole, a condizionare la musica?
All’inizio del Cinquecento, si era proposta ai letterati la “questione della lingua”: Pietro Bembo, autore delle Prose della volgar lingua, tra i diversi cambiamenti in ambito letterario, ebbe il merito di aver proposto un’attenzione del tutto innovativa al rapporto esistente tra musica e poesia: da questo momento in poi si tentò di dare concretezza sonora alle immagini del testo, focalizzando l’attenzione sulla sostanza semantica del medesimo. È proprio in questo periodo, non a caso, che vennero ideati i cosiddetti madrigalismi o topoi musicali, funzionali alla trasposizione in musica del significato letterale espresso dal testo poetico.
Tra di essi, c’era il lamento, un musema (contrazione di “music morpheme”1), strumenti referenziali di natura esogena, portatrici di significato e significante. La caratteristica principale del lamento in musica è la presenza di un tetracordo discendente – tra la prima e la quarta nota esiste un intervallo di quarta giusta – reiterato più volte all’interno di un componimento su cui poggia la parte vocale; come suggerisce il nome, il carattere principale è la sofferenza espressa per motivi amorosi o delusioni personali.
È curioso notare che, come sostiene Curt Sachs in Sorgenti della musica, gli antichi erano soliti esprimere il loro dolore con una serie di “melodie a picco”, un “grido addomesticato” che partiva dalle note acute, arrivando al registro grave.
Il lamento della Ninfa di Claudio Monteverdi, dai Madrigali guerrieri ed amorosi, n.18 (1638) è un chiaro esempio di “seconda prattica”, ove la musica diventa ancella dell’orazione: il tetracordo diatonico discendente, affidato al basso continuo (la – sol – fa – mi), su cui si leva il lamento struggente della protagonista femminile – commentato da due voci maschili – viene reiterato ben trentaquattro volte all’interno della composizione. In poche parole, le note discendenti, dipinte sulla partitura, imitano e fanno comprendere lo stato d’animo della Ninfa (soprano).
When I am laid in earth, dall’opera Dido and Aeneas (1689) di Henry Purcell, componimento conosciuto più comunemente come il Lamento di Didone, è una delle arie più famose nella storia del melodramma. Questa volta, la funzione musicale-drammaturgica del lamento è affidata ad un tetracordo cromatico discendente (sol – fa# – fa – mi – mib – re, le cui note fondamentali sono sol – fa – mi – re), con valori ritmici diversi. L’intera aria gira intorno a questo tetracordo discendente, ripetuto incessantemente e culminante nella struggente richiesta «Forget my fate».
Le note utilizzate nel Lamento di Didone sono diverse dal prototipo monteverdiano; non lo è, però, il principio costruttivo di entrambi i lamenti. Tuttavia, il Lamento della ninfa, rientrando nel “genere rappresentativo” in quanto espressione musicale che vuole essere drammatica, è considerato una scena-lamento: è un monologo multi sezionale (in quanto intervengono, commentando, le due voci maschili), caratterizzato dalla tendenza alla rappresentatività, tipica dell’opera seicentesca. Le scene-lamento costituiscono entità musicali autonome, ma non sono arie, non essendo dei pezzi chiusi e/o dipendenti da una macro-trama (quale quella dell’opera) in cui è collocata.
When I am laid in earth, invece, è considerato un’aria-lamento. L’aria è una forma vocale monodica, con un accompagnamento strumentale, che – e proprio qui sta la differenza – si sviluppa per esigenze interne al testo: in questo momento il cantante, attraverso un monologo, dilata il tempo rappresentato, cedendo il posto ad una musica capace di dar voce alla propria dimensione interiore o di commentare gli avvenimenti ex post facto (verificatesi durante il recitativo).
Questo non significa che è scorretto definire “lamento” le arie lamentose o le scene di disperazione: è la presenza del tetracordo discendente, anche variamente modificato, che tendenzialmente determina e definisce “lamento” un componimento musicale; inoltre, è fondamentale proseguire con la distinzione tra un lamento dal punto di vista drammaturgico (lamento-scena) e un lamento dal punto di vista morfologico-musicale (aria-lamento).
È curioso verificare, comunque, come questa e tante altre convenzioni musicali nate con il melodramma Cinque-Seicentesco siano adottate nella musica a noi contemporanea. Un esempio di quanto appena sostenuto è in I only want to say dal musical Jesus Christ Superstar (1973), momento in cui Gesù, chiamato al suo compito sulla terra, esprime una rivolta metafisica a Dio; non a caso, le parole cruciali del suo lamento («Why I should die») sono accompagnate da un basso continuo che riproduce un tetracordo diatonico discendente più volte.
In quali delle suddette categorie quest’ultimo esempio rientra? Probabilmente, la musica del Novecento ha sperimentato un uso innovativo del topos del lamento. Pare che, dialetticamente, I only want to say inglobi tutte e due le tipologie di lamento: un’aria-lamento perché il tempo rappresentato si allunga, a favore dell’espressione dell’interiorità di Gesù, in procinto di espiare i peccati dell’uomo; una scena perché il succitato brano musicale si presta bene ad una rappresentatività drammaturgica, mediante la quale sembra essere essenziale trasmettere direttamente la sofferenza e l’affetto doloroso di colui che da lì a poco è salito sul Golgota.
Bibliografia
1Termine coniato probabilmente da Charles Seeger nel 1977. Il dato è stato rintracciato nel saggio di MARCO BEGHELLI, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco (pag.57).
La fonte consultata è: MARIO CARROZZO E CRISTINA CIMAGALLI, Storia della musica occidentale 1, editore: Armando 2006, pag. 83-86.