Quanti di voi si sono sentiti soli, anzi, solissimi sulla strada verso casa, dopo una giornata di lavoro duro, anzi, durissimo? Per sentire nella pancia quella sensazione sgradevole che ci dice che a casa non c’è nulla di buono ad attenderci, un genitore arrabbiato o peggio malato, altro lavoro da fare, una casa da pulire, del cibo da cucinare che di solo tonno in scatola non vive l’uomo.
Amo essere riaccompagnata a casa, amo il fatto che qualcuno si prenda cura di me e si prenda la briga di fare un gesto spontaneo d’amore, amo riempire quella tristezza tra la biblioteca, il lavoro o il fine serata e la mia camera.
Il taxista
Avevo 17 anni e un paio di pantaloni neri a zampa d’elefante.
Pessima serata.
Un compleanno in discoteca.
Una di quelle serate pacco dove nessuno ha nulla da dirti se non farti complimenti volgari per come sei vestita, una di quelle serate dove aspetti solo la mezzanotte per fare la Cenerentola e dire con un finto sospiro ‘scusate è troppo tardi, devo proprio scappare’, fingendo grande rammarico.
Una di quelle serate dove l’attenzione è catalizzata sulla bella che non sei tu, che forse non ha davvero nulla da dire visto che parla solo Inglese e solo tu puoi capirla.
E arrivata la mezzanotte mi dileguai con un inchino, finalmente, finalmente poter essere se stessi e non fingere di divertirsi.
C’era un problema: avevo troppi pochi soldi per un taxi e potevo scordarmi una buona azione paterna.
Fermai comunque un taxi, titubante, goffa, della goffaggine buffa e tenera che mi caratterizza, spiegandogli il problema.
Il taxista mi disse semplicemente ‘salta su’ e io saltai!
La strada per casa era breve, 10 minuti scarsi.
Parlammo del più e del meno e al momento di scendere il taxista mi disse ‘non avrei mai lasciato una ragazzina vestita così e con in tuoi occhi in mezzo a una strada’. I gentiluomini esistono ancora, seppur rari.
Mi resi conto che non avevo le chiavi: panico, avrei dovuto farmi la notte all’adiaccio, mio fratello non avrebbe mai perdonato che lo svegliassi nel cuore della notte, non potevo farlo.
Svegliai in compenso la famiglia della mia più cara amica delle elementari che da sempre abita vicinissima a me, sapevo mi avrebbero accolta a braccia aperte e così rimediai anche un posto per la notte.
La mia più cara amica delle elementari, la cui amicizia non fu mai incoraggiata dai miei: i suoi genitori erano soltanto portieri. E da bravi portieri mi aprirono la porta quella notte di dicembre, come un padre e una madre in apprensione perché la figlia non torna.
Donatella
Donatella aveva 29 anni, io 21, eravamo nello stesso gruppo politico universitario. Erano tutti più grandi di me, io mi sentivo piccola e fuori posto ed esternavo la mia goffaggine con aggressività e ansia, parlavo come una macchinetta, sfornavo giudizi su tutto e su tutti sempre troppo netti.
Erano tutti adorabili, a turno, uno di loro grandi si faceva carico di accompagnare la pischella a casa.
Fu il turno di Donatella.
Ero imbarazzatissima.
Se ne accorse.
Per tranquillizzarmi mi raccontò di come anche lei aveva sempre frequentato persone delle età più svariate, quando aveva circa l’età che avevo all’epoca aveva avuto un uomo di dieci anni più grande.
Le raccontai di mamma, del fatto che la sua malattia costituisse un problema, anche su questo riuscì a tranquillizzarmi: anche la sua migliore amica era bipolare, sapeva quello che stavo passando.
Informazioni vitali, scambiate tra un semaforo rosso e l’altro, quella chiacchiera che ti cambia la serata e ti resta nel cuore a distanza di 7 anni.
Questa sera sono tornata a casa da sola dopo danza, di solito c’è la mia spina dorsale, la mia migliore amica ad aspettarmi nella sua auto giallo limone.
Avevo appuntamento con un amico di vecchia data per una cena.
Il mio amico si è dato malato via messaggio e all’ultimo.
Già pregustavo la serata come si pregusta un tiramisù annunciato per la cena e poi? E poi il tiramisù non c’è e ti tocca fare i conti con l’amaro in bocca.
Danza dura 1h 30’, è molto impegnativa e l’idea di farsi 45’ di trasporti pubblici a stomaco vuoto fa venire da piangere.
E dire che avevo anche messo le scarpe col tacco per essere “all’altezza” della situazione, un’ulteriore tortura.
Ho sbagliato direzione del metrò.
Ma sul metrò ho incontrato una signora sulla sessantina che conosco, prima di scendere mi ha fatto una carezza sulla guancia che mi ha punta al cuore.
Poi un ragazzo della mia età circa mi ha sorriso, era straniero.
Nel suo Italiano stentato mi ha chiesto se fossi stanca e mi ha detto di resistere ancora per qualche istante fino a casa. Forse ha capito quanto mi sentissi sola e anche lui ha cercato di colmare quel vuoto.