Nell’immaginario artistico e nel pensiero filosofico “neo-mondista” (leggi: statunitense), la fuga dalla società organizzata è un tema che è stato più volte ripreso e trattato, un tema di indubbio fascino speculativo, che forse è parte del loro stesso Dna culturale, del loro modo di intendere l’ideale sviluppo dell’individuo. Il rapporto conflittuale con una società industriale e consumistica è comprensibile, in particolare se riferito alla nazione che più di tutte incarna i gravi errori, per certi versi congeniti, di questo sistema economico. Sono proprio questi errori ad essere alla base della scelta radicale della famiglia Cash, protagonista di Captain Fantastic. Vivono nelle foreste dello stato di Washington, dove i genitori hanno comprato un terreno su cui costruire il loro piccolo villaggio familiare, costituendosi a tutti gli effetti come una sorta di autonoma tribù.
Questa estrema forma di autarchia, fusa ad un vessante anti-capitalismo, è stata più volte ripresa nella cultura statunitense, sia mainstream che underground. Basti pensare a certe correnti che facevano parte della contro-cultura degli anni ’60, che ambivano ad incorporare istanze culturali proprie dei nativi americani o delle religioni orientali nella loro opposizione al sistema, ad esempio mediante un armonico avvicinamento alla natura; oppure, andando più indietro, vi furono le teorie della scuola trascendentalista, in primis i lavori di Ralph Waldo Emerson, e dei pensatori ad essa vicini, più rilevante dei quali fu Henry David Thoreau. Per certi versi, sembrano essere state proprio le opere di quest’ultimo ad aver influenzato gran parte di questa “cultura della fuga” (Thoreau, tra l’altro, è stato uno dei primi propositori della “disobbedienza civile”, intesa come valida forma di protesta). Una delle indiscusse vette di tale orientamento è stata, poi, la storia del fuggitivo naturalista Christopher McCandless, narrata prima nel libro di Krakauer e dopo nella celebre e celebrata pellicola “Into The Wild”, tassello fondamentale per comprendere l’attrazione ossessiva per il tema, che sopravvive tutt’oggi nella cultura statunitense.
Captain Fantastic estende l’individualismo di questa tradizione ad una forma di fuga definibile comunitaria, in quanto fondata anzitutto sui valori della famiglia. D’altronde, lo recita anche la locandina del film: “Family values – Power to the people – Stick it to the man”, che riassume in tre mantra il modo di vivere e intendere la vita della famiglia Cash, sotto la guida spirituale del padre Ben (Viggo Mortensen). O almeno, lo riassume per quanto riguarda la prima frase: la famiglia-comunità viene prima di tutto nel mondo dei Cash, che trae ispirazione dalle esperienze personali del regista, Matt Ross. Il rischio tuttavia, da cui non esula del tutto neanche il finale, è quello di proporre l’assoluta correttezza di modelli famigliari ad enclave, vagamente autoritari, nelle forme e modalità di un paternalismo a volte distante dalle necessità espresse dai figli.
Alla sua seconda pellicola, Ross compie comunque un’impresa che merita quantomeno il rispetto che le si dovrebbe, per via anzitutto delle dimostrate capacità di regia, coronate da un premio come miglior regista nella categoria “Un Certain Regard” al Festival di Cannes. Nonostante siano quindi indubbie le qualità registica e autoriale, Captain Fantastic cede alla regola del compromesso, della rinuncia parziale in seguito alle difficoltà affrontate. La storia della famiglia Cash è sì toccante e coinvolgente, ma la scrittura dei dialoghi, mentre nel complesso risulta soddisfacente nella sua verosimiglianza, con certe battute rischia di cadere in una comicità eccessivamente banalizzante.
Il film però regge, è solido nel suo sviluppo, ed è ben accolta la complessità tematica che sottostà all’intera opera: la critica, seppur come detto limitata, ad una società che non consente l’autonomo sviluppo di una famiglia, delle persone in generale, se non integrandole nel grande meccanismo del consumo e dell’ordinario. Con Captain Fantastic, sono sviscerate così le frequenti e latenti ipocrisie e paure che sottostanno a scelte di vita che osteggiano in tutto e per tutto questo sistema vigente, senza tuttavia trovarne una durabile soluzione alternativa, che sia coerente con gli ideali anti-convenzionali, anti-sistemici, esposti dai protagonisti. Insomma, mentre il dramma umano trova la sua conclusione, il dramma sociale viene affrontato forse con troppa sicurezza di sé.