Il Thermopolium era, nell’antica Roma, simile a ciò che noi oggi è chiamato street food o fast food, sia secondo quella funzione di dispensare in breve tempo cibi pronti al consumo, sia secondo quella dell’organizzazione ambientale.
Il cibo fast
Il thermopolium appariva costituito da un bancone sul quale, alloggiate in appositi fori, riposavano anfore ricolme di diverse pietanze. Spesso inoltre, proprio come negli odierni fast food, vi era anche una zona retrostante al bancone, adibita al consumo del cibo. I menù proposti erano vari e nella maggior parte dei casi proponevano piatti a base di legumi, verdure, uova, olive, cipolle, spiedini di carne, salsicce, cacciagione, pesci, formaggi, frutta secca o di stagione, focacce e dolci. Erano molto diffusi all’interno dei centri urbani: nella sola Pompei ne sono stati rinvenuti 89, altri sono stati riportati alla luce ad Ercolano e ad Ostia antica. L’usanza di cibarsi fuori dalla propria abitazione secondo modalità che oggi verrebbero chiamate “in strada” e “al volo” caratterizzano quindi l’uomo sin dall’antichità. Il termine Thermopolium deriva dal greco e significa propriamente “spaccio di caldo” inteso come la vendita di pietanze calde e pronte al consumo.
La pratica del fast food è anzitutto una pratica sociale, poiché presuppone banalmente che la pietanza sia preparata da qualcun altro. Tuttavia, tale concept indica un mangiare al volo, il consumo di un boccone in maniera funzionale al tempo: è fast, appunto. E’ fast, in primis poiché deve esserlo. E’ fast poiché è il tempo a dirlo. Perché il tempo che si ha a disposizione in quel momento è limitato poiché sempre osservato dagli occhi fiammeggianti di impegni urgenti e cadenzati da scadenze improrogabili. Il cibarsi, nello spirito fast, è spogliato da qualsiasi accezione spirituale e inserito all’interno di un contesto ove egemone è la necessità dettata dalla contingenza. Ciò appare non secondo un’accezione negativa ma virtuosamente appropriata allo stile di vita dell’uomo per come lo si conosce oggi. Antico o moderno in questo senso non presuppone alcuna differenza dal momento che sempre di uomo faber si parla (dell’uomo che fa e che produce secondo modalità sociali funzionali necessarie ed importanti).
L’abitudine del cibo
Tuttavia aleggia un rischio. Questo rischio ha forma e moto particolari, precisamente quella di un folletto che spinge le lancette di un orologio interno verso il tempo della dimenticanza. Il suo operato è tale da corrompere un equilibrio essenziale e necessario. Egli, appena vede presentarsi l’occasione in cui vi sia del tempo da dedicare interamente al nutrimento, spinge le lancette avanti, con forza, facendo dimenticare al consumatore l’importanza di dedicare, quando possibile, tempo unicamente per mangiare. La casa di questo folletto è l’Abitudine. Esso si cela fra le maglie dell’abitudine sussurrando spesso e volentieri. Il suo sussurro raggiunge l’uomo, inducendolo a nutrirsi velocemente anche quando vi sarebbe tempo in abbondanza. E’ importante e necessario riuscire, nella quotidianità, ad equilibrare i moment fast food con momenti in food, dove “in” è inteso proprio col significato di dentro. Internamente al cibo, dove il mangiare acquista significato in quanto è fine a sé stesso, in quanto permette di apprezzare e gustare all’interno dell’eternità del momento in cui ci si nutre. Il nutrimento infatti è sì atto eterno poiché interamente connesso al senso della vita. Senza mangiare l’uomo morirebbe.
L’atto di cucinare e mangiare secondo modalità “sacre” è di vitale importanza dal momento che porta alla comprensione del senso interiore il peso specifico di quell’azione. Di conseguenza quindi conferisce senso proprio all’importanza del cibo. Importanza che si tende oggi a smarrire. Il movimento consecutivo lo suggerisce Hanna Arendt (filosofa del pensiero moderno-contemporaneo), quando parla della dinamica della banalizzazione del male per cui un’azione che ha in sé il germoglio del male, dell’anti-vita, diviene abitudine nel momento in cui spesso e volentieri facciamo oggetto d’un’ilarità inconsapevolmente mostruosa. Tale dinamica è caratteristica dell’uomo contemporaneo occidentale in molte delle sue pratiche. Dalla politica ove tutto diviene buffonata, show, motivo di risa. Al placarsi delle risa tuttavia, rimane un senso strano, di estraniamento, un senso di non coinvolgimento emotivo. Un senso di distacco da ciò che realmente accade. La società pecca costantemente di serietà.
La serietà del cibo
Unicamente la serietà permette di carpire infatti ciò che è reale (dove “serietà” compare qui nella sua accezione specifica antitetica alla banalità). E’ come guardare un cartone animato, spesso molte scene generano sì ilarità, ma il senso di ciò che accade davvero può essere compreso unicamente da un moto di serietà. La mancanza di serità, anche nella risata, è chiaramente segno d’immaturità emotiva. Dell’immaturità che vede il non riuscire a disporsi, quando serve, in termini seri nelle cose della vita. Dietro la banalizzazione della gestione della cosa pubblica, compare il disagio sociale. Visto in quest’ottica la risata si spegne e lascia il posto alla vita vera, quella dura, quella di tutti i giorni in si stringono i denti sulla strada lastricata d’ingiustizie. Non vedere questo nesso significa essere emotivamente ignari della vita stessa. Significa che il folletto di cui sopra è riuscito, sin da gesti più semplici ma fondamentali, quale quello del nutrirsi, a spingere le lancette nella direzione dell’oblio, della dimenticanza della vita.
Nelle società ove permangono quei valori per ciò che è importante, vi è vita, sempre. In quelle ove non vi è tale senso, vige la morte e la deriva sociale. Non a caso l’Italia, paese ove vi è sempre stato il culto del cibo, riesce ad essere ancora oggi, resistendo sotto i colpi di una cultura che si sta imponendo secondo un pensiero unico e che caratterizza gli abitanti d’oltre oceano, ancora una volta innovatrice, sia in politica che nelle arti. Se guardiamo alla storia dell’Italia, la vediamo sempre protesa all’innovazione, alla proposta, alla vita, poiché la vita è generazione di qualcosa secondo un senso.
Ecco perché è importante recuperare il senso eterno del nutrimento che dev’essere in equilibrio con tutti gli altri sensi in cui il nutrirsi si da, come quello fast, appunto. Una cultura che non ha il senso del cibo è una cultura protesa alla morte, alla perdita di ciò che è umano, alla perdita di senso.