Tropici metropolitani

Il mio nome è Edoardo e tutti i giorni è la stessa storia: occhi che bruciano di sonno e musica infilata nelle orecchie. Quando mi annoio vado a caccia di pensieri e parole, li coltivo e li raccolgo; questo è l’unico lavoro che mi piace.

Ma dove sto andando?

Silenzio. Nessuno mi risponde e non voglio risposte da nessuno, tra l’altro.

L’autobus ci accompagna e fa cfffiii alla fermata della metropolitana. Porte aperte. Spingono tutti come se fossero pornoattori. Il torrente di teste scende i gradini e si infila in ogni fessura possibile. Robot programmati per quello. Mano nella tasca, portafogli, il suono magnetico GNE’, lucina verde accesa, giù per altre scale. In banchina incontro ogni giorno l’ometto con la calvizie, incamiciato e incravattato, con le spalle condite di pane grattugiato bianco e che masturba il palmare nuovo di zecca con l’indice.

La metro arriva sbadigliando. Si aprono altre porte. Mi metto in piedi, contro il vetro, così riesco a guardare il vuoto del tunnel e i riflessi dei volti, senza far vedere il mio.

Gli occhi ancora bruciano di sonno e musica infilata nelle orecchie.

Centinaia di persone, dicevo; centinaia di testoline tutte insieme che devono partire, fremono, si agitano dentro un treno che entra in gallerie. Stamattina credo di essere lo spermatozoo numero millecentocinquantatre. Profumi di rose, menta, seta. Profumi di profumo.

E puzze.

Puzze da far pensare ad un suicidio, puzze di ascelle, catarro, cimitero. Bocche che sanno di olio fritto, vomito di salame. Bocche morte.

A Primaticcio noto riflessa nel vetro una ragazza tutta bellezza e zucchero, mora da far male, labbra rosa scure che cantano melodie, canzoni, poesie d’amore. Ha gambe dure che scivolano giù fino ai tacchi che la alzano in cielo.

Mi volto per studiarla meglio.

Gli occhi son biglie nere forse trovate in qualche spiaggia tropicale, tra i granchi e le alghe, accarezzate dall’acqua azzurro gialla. Ha le cuffie e guarda il vuoto. Forse è come me. Forse odia tutti e sta pensando di scappare lontano da qua per un giorno, e poi ritornare e scappare di nuovo. La guardo, la fisso, l’abbraccio con gli occhi e cerco di mescolarmi ai suoi pensieri. La metro va a passo d’uomo, stiamo arrivando alla fermata di Wagner.

A Pagano le chiedo il nome e dove abita. Mi dice che va in università, studia Beni Culturali. Bello, le rispondo, avrei voluto studiarlo anche io. Sorride. Mi fa domande e io rispondo ballando con le parole, perdendo il ritmo delle frasi, giocando a biglie nere sulla sabbia. Molliamo tutti e ce ne andiamo a bere qualcosa da qualche parte. Ci bagniamo la bocca e il cuore di birra, ascoltando una canzone che piace a tutti e due. Arrossisce. Sì, riesco a farla arrossire. Mi dice che dovrebbe studiare ma non ce la fa, perché vuole stare con  me oggi, domani, ancora. Non le rispondo, non sono bravo con le parole. La prendo dietro il collo, la spingo a me e ci bagniamo stavolta la bocca e il cuore di passione. Poco dopo ci ritroviamo da lei. Ha un letto soffice, petalo e cuscini. Ci sediamo sopra e mi fa vedere alcuni libri che ha letto. Facciamo l’amore tra un Pirandello e un Volo. Lei trema di passione, sa di crema e fragole e dice che mi ama, soffiandomelo tra i capelli sudati. Poi siamo a New York, su una panchina del Central Park.

Mi sparisce all’improvviso, risucchiata nel vortice di teste, alla fermata successiva. Rimango lì, piccolo piccolo, girino in una pozzanghera, a guardare il mio riflesso nel vetro umido di aliti. Cretino!

Gli occhi bruciano di sonno e la musica galoppa nelle orecchie.

Attorno a me nuovi robot. Fine del gioco.

La vita sulle nuvole mi offre il materiale per campare, ma non vengo pagato.

Niente.

Mi tocca avere un secondo lavoro, penso, mentre scendo in Duomo.

Il secondo lavoro mi occupa gran parte della giornata. Dopo due anni di disoccupazione sono stato ospitato come stagista in libreria, cinque giorni su sette, nove ore al giorno, quattrocento euri al mese, due rotture di coglioni. E’ un dovere, non un diritto. Libri tra le mani sempre, ovunque. Fai così, fai quello, vai là, cercalo lì, no! Mi dissero i primi giorni. I testi che la gente ordina li raccogliamo, li ammucchiamo, li picchiamo, li sbattiamo sui tavoli, li ordiniamo e mettiamo negli scaffali. Clic-clic sul computer per memorizzare. Memorizza, muoviti, veloce. Se i libri ci sono tutti, portarli in cassa, etichettarli e inscatolamento con pistole di scotch. Buon viaggio, carissimi.

Mentre faccio clic-clic penso a cosa farmene dei quattrocento spicci di fine mese. Immagino il mio nome sopra uno di ‘sti libri da strapazzo così tanto venduti. Non mi importa nient’altro.

 

“Abbiamo qui con noi lo scrittore del momento. Che cosa vuol dire per lei scrivere?”

“E’ come masturbarmi”

“Veramente?”

“Veramente”

“Di cosa parla il suo libro?”

“Occazzo…”

 

Dannazione. Di cosa parlerà?

Davanti a me si materializza un uomo.

“Buongiorno, deve ritirare un ordine?”, chiedo.

“Mh! Mh!”

Credo abbia difficoltà respiratorie. Son quasi tutti così. Ansimano dalla fretta, dall’agitazione, dalla frenesia, da tutto. Ansimano. Valli a capire.

“Ha il codice dell’ordine?”

“Mh, mh”, e tira fuori il foglio da non so dove.

E’ un omino senza occhi, ha la barba grigia incolta, una leggera bavetta ai lati della bocca e puzza di formaggio e sigaretta. Mi domando come faccia ad essere vivo.

“Aspetti qui”

“Mh!”

Glielo consegno, lo annusa e se ne va strisciando.

Sono le undici e mezza, cosa rispondo all’intervistatore?

 

Ore diciotto.

Scappo come una lince liberata dalla gabbia.

Gli affluenti di teste stanche si incontrano nuovamente in metro. Portafogli fuori dalla tasca. GNE’. Chissà dove sarà l’ometto col palmare, adesso. Le porte si aprono, di nuovo, ancora, per sempre. Che noia, che vitaccia. Mi metto vicino al vetro, poi guardo il mio riflesso e penso a spiagge tropicali, biglie nere, noci di cocco e Central Park: che meraviglia.

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