La serie di James Bond va avanti ormai da oltre cinquant’anni, qualificandosi come uno dei franchise più longevi della storia. Dapprima una serie di romanzi scritti da un ex ufficiale della marina statunitense, Ian Fleming; poi, dal 1962, una saga cinematografica che sopravvive ancora oggi, nonostante il pubblico (e il mondo attorno a esso) sia cambiato radicalmente.
Il segreto del suo successo, nonché primo motivo di critica da parte dei detrattori più accaniti, è una struttura narrativa rimasta pressoché invariata dai tempi della Guerra Fredda: i servizi segreti britannici (l’MI6, capeggiato da M) affidano all’agente 007, alias James Bond, il compito di salvare il mondo dalle minacce esterne, rappresentate di volta in volta da megalomani in possesso di armi nucleari, eccentrici contrabbandieri internazionali e, più recentemente, villain capaci di minare dall’interno l’ordine stesso dell’MI6. Nel fare questo l’agente Bond, noto per le sue doti da seduttore, si serve di una galassia di figure femminili il cui spessore narrativo è, spesso e volentieri, direttamente proporzionale alla quantità di tessuto che copre i loro corpi, veri e propri oggetti del desiderio meritevoli di un’etichetta tutta propria, quella di “Bond girl”. Ora, com’è possibile che una formula che non fa nulla per nascondere il proprio sessismo intrinseco sia giunta fino a noi, schivando abilmente gli strali unanimi (e giustificabili) della critica femminista? La questione è più complessa di quanto sembri.
Che James Bond sia una serie tutt’altro che progressista è evidente. Benché Sean Connery e Daniel Craig non sembrino condividere molto fuorché la nazionalità, le loro diversissime interpretazioni della figura di Bond condividono però un unico, essenziale tratto: sono maschi bianchi, occidentali, emblema ciascuno di un modello di virilità tipico del proprio tempo. È l’archetipo dell’uomo bianco colonizzatore e civilizzatore. Dalla parte dei cattivi, invece, una pletora di figure grottesche e “diverse”, dal Baron Samedi dedito a riti vudù di Vivi e lascia morire al più recente Raoul Silva di Skyfall, la cui latente omosessualità va a braccetto con la su depravazione fisica e morale. Le donne, poi, oscillano sistematicamente tra l’archetipo di femminilità casta e pura (sempre in Vivi e lascia morire la bond girl ha poteri di chiaroveggenza, a patto però che rimanga vergine) e, sul versante opposto, il cliché della femme fatale ambigua e seduttrice. Bond, ovviamente, finisce per conquistare entrambe, ristabilendo così l’ordine gerarchico-patriarcale.
Dopo aver fatto prudere le nocche a qualcuno, c’è però da dire che i produttori della serie non sono così insensibili all’evoluzione dei costumi e delle rivendicazioni sociali. Nel corso degli anni alcune studiose, tra cui Marlisa Santos, hanno notato come alcune bond girls della serie si siano svincolate dall’opprimente stereotipo, arrivando addirittura in rari casi a mettere in ombra lo stesso Bond. È il caso di Tracy di Vincenzo, interpretata da Diana Rigg (sì, la nonna Olenna di Game of Thrones) in Al servizio segreto di sua maestà. Il suo personaggio è tanto forte e indipendente quanto è tormentato il Bond di George Lazenby, costretto per la prima volta nella serie a fare i conti con il fallimento e con il lutto.
Insomma, è vero che le avventure dell’agente 007 sono indissolubilmente legate a una struttura ben codificata che, figlia della Guerra Fredda, tende a ribadire la superiorità dell’uomo bianco britannico a scapito di tutto ciò che è considerato “altro”; è anche vero, però, che in una struttura così rigida le eccezioni risaltano ancora di più e attirano a sé la curiosità di decine e decine tra critici e accademici.