di Chiara Ciotti
L’8 novembre Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America contro ogni previsione, nonostante i sondaggi e l’opposizione dei media occidentali. Ha sconfitto il suo avversario, la democratica Hillary Clinton, trionfando laddove lei ha fallito: creando empatia e parlando alla pancia degli americani. Puntando su un’ideologia nazionalista e protezionistica con lo slogan Make America great again ha fatto leva sulla frustrazione e sulla rabbia della classe media bianca, estenuata dalla crisi economica e spaventata di fronte alle sfide del mondo contemporaneo. Un trionfo che ha provocato, all’indomani del voto, shock non soltanto tra le èlite culurali ma soprattutto tra i giovani che si sono riversati nelle piazze delle maggiori città americane da New York a Boston per protestare. Sono gli stessi giovani che hanno disertato il voto, facendo registrare un calo sensibile dell’affluenza alle urne.
E se fossimo dinanzi ad una generazione apolitica, incapace di farsi coinvolgere e di coinvolgersi, passiva e completamente assuefatta alla tecnologia?
I millennials, i ragazzi compresi tra i 18 e i 29 anni, determinanti nell’elezione di Obama nel 2008 e nel 2012, sono i delusi dal voto, quelli che considerano Trump un razzista e la Clinton una bugiarda e sostenevano il socialista Bernie Sanders durante le primarie democratiche. Sono i giovani che lottano per le battaglie civili, che appoggiano l’occupazione degli indigeni americani nel South Dakota per bloccare la costruzione dell’oleodotto nelle riserve indiane, che protestano contro le violenze sessuali e denunciano il razzismo. E’ la generazione che sogna di cambiare lo stato delle cose, ma non ha fiducia nella politica, che si sente esclusa dai processi decisionali e rinuncia alla partecipazione, additando i politici come corrotti e schiavi del potere che gareggiano esclusivamente per i propri interessi. E’ rappresentativa del sentimento condiviso tanto in America quanto in Europa.
Sono i giovani traditi dall’involuzione della politica. Il termine era originariamente utilizzato, nell’Antica Grecia, per indicare ciò che apparteneva alla dimensione della vita comune, dello Stato e del cittadino. La politica era sempre finalizzata al bene comune, per Aristotele. E’ una pratica che ha conosciuto numerose definizioni, evolvendosi di secolo in secolo, confrontandosi con la Storia, affrontando incalcolabili sfide, dalle rivoluzioni alle dittature, non ultima la sfida della modernità: il confronto con la religione e il terrorismo. E’ la Seconda Guerra Mondiale che ha rivoluzionato la percezione della politica ristabilendo il suo intrinseco ruolo di strumento di mediazione e confronto, un attributo che oggi si ridimensiona con l’ascesa dei populismi di destra e di sinistra.
In ogni generazione scorre nelle vene il seme della rivoluzione e del cambiamento, ma progressivamente si registra una disaffezione e un disimpegno alla politica. Sentimenti causati anche dalla mancanza delle grandi narrazioni che hanno infiammato i cuori di milioni di ragazzi, di ideali e valori, dell’empatia e del senso di identificazione che i politici, oggi, non riescono a creare, ma soprattutto dalla loro totale assenza di carisma. Da ciò ne deriva delusione e smarrimento, sfiducia e frustrazione in una generazione iperconnessa, che spesso confonde il reale con il virtuale, che non legge e non si informa, che non ha stimoli e che si è perfettamente ambientata alla società liquida teorizzata da Bauman.
E’ il secolo dominato dalle incertezze e dalla paura dell’altro. Dove è finito l’insegnamento delle generazioni passate che di politica vivevano e spesso morivano poichè gridavano le loro ragioni, lottavano in prima linea, non progettavano frontiere e confini, non si ergevano a giudici del popolo tramite i social network? Dove è finita la passione politica, l’attivismo e l’interesse a difendere gli ideali?