I
Le notti di fine maggio, quelle sono notti da ricordare: i primi vestiti corti, le gemme che si affacciano timide sui rami degli alberi, le ore che paiono stiracchiarsi lungo la linea del tempo, sgomitando con gentilezza, chiedendo permesso. Luis assapora quel gusto agrodolce dell’inverno che fugge, trincerato dietro una porta scorrevole in vetro ben chiusa, circondato delle sue cose mortali: pochi libri, tanti film, una chitarra e qualche busta di patatine abbandonata a se stessa, in terra. Guarda la facciata della casa di fronte alla sua, uguale alla sua: muri anonimi eppure viventi, le passatoie tutte uguali, piano per piano, protette da ringhiere che si affacciano quasi a strapiombo sul cortiletto interno e le porte tutte in fila, come soldati sull’attenti, con le uniformi in vernice grigia scrostate e cigolanti, e le dame dei combattenti, le finestre, vestite con lo stesso gusto decadente, un poco popolare; dame con un solo vestito buono, quello della domenica, i fazzoletti in testa, gli occhi di vetro e spifferi ovunque.
Distoglie lo sguardo per cercare il pacchetto di sigarette, Lucky Strike rosse, trova pesca accende aspira e torna a osservare la realtà fuori da sé. Sarebbe potuto uscire, stasera, ma ha preferito rimanere in casa, la musica per la prima volta spenta, a dedicare un po’ di tempo al tempo che si perde, darsi al nulla prima di mettersi a dormire, sempre troppo tardi, e ricominciare il rito della vita.
Luis si guarda nel riflesso tremulo della finestra, sogghigna: non riesce a distinguersi bene, e quel personaggio un po’ caricaturale non gli comunica né confidenza né ostilità.
È solo un’immagine imprigionata su una superficie di vetro, non ha attinenze con il suo io. 25 anni di corpo, 25 anni d’invecchiamento, congettura Luis, i liquori più maturano più diventano pregiati, per l’uomo invece è il contrario: man mano che il conto alla rovescia, così lo chiama lui, s’assottiglia, il fisico s’indebolisce mentre lo spirito si rafforza.
Solo prevalere di forze opposte, in fin dei conti. Apre la finestra con un gesto deciso, tenendo la sigaretta incastrata tra le labbra; il vento tiepido lo colpisce con un buffetto leggero, e lui si trascina sulla passatoia. Sarà ormai passata da poco la mezzanotte, non lo sa, non vuole guardare l’orologio, tutto tace. È mercoledì, è normale che tutto taccia, la gente deve alzarsi, andare a lavorare, spaccarsi la schiena anche nei giorni feriali e lui no, lui lavora in casa, smanaccia sui computer, di fumetti legge solo quelli sugli zombie, gli hentai non lo attraggono.
Abita al quarto piano di una casa di ringhiera, uno dei piccoli tesori della Milano vecchia, vicino ai navigli: le macchine non fanno rumore, casa sua è come congelata tra le due grandi guerre, ed ogni tanto Luis si sente un ragazzetto di campagna negli anni quaranta, a stravedere per una procace tabaccaia che non esiste.
E anche se fosse esistita, oggi sarebbe morta.
O peggio ancora, vecchia. Ora invece Luis è lì, sulla passatoia in pietra e si guarda attorno: sulla destra una piccola scala che lo condurrà al tetto in tegole, pericolose e indifferenti.
Si tasta le tasche dei jeans, sì, le sigarette ci sono, accendino pure, telefono no, questa volta lo lascia a casa; è piacevole fare gli invisibili, di tanto in tanto.
Sale.
Ha conosciuto già le tegole in terracotta, rossicce e spioventi, ha trovato loro nomi, da lì ha guardato le stelle, dato qualche bacio, suonato e bestemmiato. È pure caduto giù, una volta: niente di serio, è planato davanti alla porta/finestra del suo appartamento. Comico, peccato che nessuno stesse guardando. Il ragazzo fa correre gli occhi attorno a sé, amando l’assenza ritmata che lo circonda. Avrebbe bisogno di più tempo, si confida, con un moto improvviso di sincerità, di meno gorgheggi intellettualistici tipici della sua età, di ragionevolezza, di una donna nel letto che non gli parlasse troppo ma che lo amasse abbastanza da perdonare tutti i suoi difetti, e che lo disprezzasse quel tanto che basti per lasciarlo con sensuale crudeltà, abbandonandolo come un pirla a gingillarsi con la malinconia. Si trovò a riflettere sulla brevità e inesattezza del tempo: un giorno è fugace quanto eterno, concetto trito e ritrito, ma disastrosamente vero.
Un giorno come un secondo, un secondo come ore.
Avrebbe avuto bisogno di qualche ora in più, anche una sola, nella quale vivere al di fuori del tempo stesso. Un’ora per dormire, un’ora per fare sesso, oppure per iniziare a smettere di fumare. Sessanta secondi in aggiunta al tempo concessogli, non gli pare di chiedere tanto. Che poi, riflette Luis, accendendo l’ennesima sigaretta e aspirando boccate nervose, era già stato dimostrato come il tempo non esistesse. Non si ricordava bene chi l’avesse provato, o ci avesse filosofeggiato sopra, ma era certo di averlo letto. Il tempo non c’è, l’uomo l’ha creato, il tempo inteso con il concetto di ore e giorni, opere e giorni, è tutto un tentativo disperato di dominio, possedere il reale, e dire le preghierine ogni notte. Si dice, stronzate, smettila, Luis. Cosa cambieranno questi pensieri nella tua esistenza? A cosa serve la consapevolezza, l’affanno, l’amore? Tanto, tutto si conclude, giù il sipario, applausi ed avanti il prossimo.
Getta la sigaretta dal tetto, e percepisce distintamente un singhiozzo.
“Merda” bofonchia a denti stretti, e si piega in avanti, mettendosi a carponi e facendo ciondolare la testa oltre il limite tra tegole e cielo.
“Scus..” mormora, ma tace: una ragazza in pigiama sta accucciata sulla balaustra, come i gargoyle sulle guglie delle chiese gotiche, la porta della casa affianco a quella di Luis spalancata, della musica nell’aria.
Come aveva fatto a non sentirla prima?
Della ragazza vede solo la testa, un rossiccio nido di rondine, piegata verso l’aciottolato del cortiletto, troppo lontano, le mani strette convulsamente sulla ringhiera. Una cariatide rannicchiata che non piange, uggiola come un cane, in equilibrio precario.
Luis rimane attonito, il primo pensiero che gli attraversa la mente, chiaro, distinto e netto è “come in un film”.
“Ehi…” prova ad accennare, sebbene le parole evaporassero con la condensa del fiato.
“Scusa, ciao…” riesce a dire “sono Luis, il tuo vicino, che cazzo ci fai lì?”
Pessimo approccio, sa esattamente cosa voglia fare la ragazza, ma è sempre stato un campione di frasi scontate. Lei non si gira, ma pare comprendere, dal momento che il suo corpo ha un fremito intenso e s’irrigidisce.
“Guarda, per favore, scendi da lì, è pericoloso, potresti cadere.”
Ma dai?
“Non ti conosco, in verità non ti ho mai vista. Ti stai comportando da stupida. Qualunque cosa sia successa, puoi benissimo risolverla. Un volo dal quarto piano non ti aiuterà a migliorare le cose. Ci sono passato anch’io: un bel cocktail di barbiturici e via andare. Poi ho capito; la vita è una merda ma per fortuna dura poco, nulla di quel che senti merita la morte, anche perché della morte noi sai nulla. Poni il caso che tu non creda in Dio, io non ci credo sia chiaro, poi t’ammazzi e scopri che invece c’era, quel bel triangolo con l’occhio in mezzo, c’era ed è incazzato con te, non ti perdona, e ti manda da Lucifero, come ti sentiresti allora? Una stupida, immagino. Inoltre togliersi la vita è da egoisti: ora pensi che nessuno ti ami, ma invece sì, qualcuno c’è, magari il barista di quella bettola, dove ogni mattina ti fermi a prendere il caffè, è innamorato di te alla follia e vuole sposarti.”
Luis prende il fiato e riattacca.
“Parlando sul personale: non voglio noie. I vicini mi avranno sicuramente sentito trafficare con le mie cose; quando ti troveranno spiaccicata nel cortile, la polizia verrà da me e cosa dirò? Ragazzi, ero sul tetto a pensare all’infinito quando quella si è buttata giù ed ho assistito alla scena, magari con un sacchetto di pop corn? Ti prego, se proprio di te stessa non importa nulla, fregatene di me, anche se non mi conosci. È una cosa un po’ cristiano-buddhista da pensare, ma tu provaci, poi ti sentirai meglio, avrai un karma talmente positivo da offuscare tutti i santoni indiani, tutti i radical chic di via Savona, persino il papa sentirà le tue vibrazioni positive. Dai. Per favore.”
I secondi si dilatano, ricoprendo più tempo di quel che avrebbero dovuto, ogni mossa avviene a rallentatore, l’orologio segna 00.58. Luis si accorge di tremare, forse per il freddo. La ragazza rovescia lentamente la testa, scoprendo un grazioso viso ovale cosparso di lentiggini: quel che colpisce Luis sono le labbra, carnose, piene, immobili. Si guardano per qualche secondo, lei ritorta su se stessa e lui steso sul tetto, quindi Luis vide quelle labbra morbide muoversi, si sente come il personaggio di un brutto romanzo.
“È anche per gli idioti come te che mi ammazzo.”
Ed è una tuffatrice, il corpo sinuoso leggermente sbilanciato in avanti, la testa abbassata, le gambe in tensione; con un gesto morbido si lancia nel vuoto. Luis chiude gli occhi. Un tuffo perfetto.
II
Luis corre.
Non ricordava di aver mai sfiorato quella velocità che ora raggiunge nello scapicollarsi giù per le scale. Nella testa, il viso della ragazza e nel petto, il ritmo accelerato del cuore.
Spalanca la porta in legno che dalla rampa di scale giunge sino al cortile interno, illuminato da uno sporadico lampione a muro. Non vorrebbe guardare, ma l’istinto lo porta a raggiungere quella sagoma accasciata in terra. È la ragazza: giace con la faccia rivolta in terra, le braccia contorte in una posa innaturale. Luis rabbrividisce dallo schifo; non gli era mai capitato di guardare un corpo morto, e si trova sospeso tra il desiderio di sedersi e fissare quell’immobilità o scappare via piangendo.
Si siede accanto a lei, prendendosi la testa tra le mani, mentre il bagliore della lampada mette in mostra le forme attraverso il pigiama. Una ciabatta è sbalzata via con l’impatto e giace a pochi metri dal cadavere della ragazza, l’altra è ancora calzata, perfetta, ma il piede è storto.
“Mio Dio…” mormora il ragazzo, scuotendo la testa, e rimane in silenzio.
Un fruscio, come di vesti smosse. Luis non ci fa caso, continuando a ponderare silenziosamente se sia il caso di scappare, di portarla via e seppellirla, di ammazzarsi anche lui; poi il rumore si ripete, sempre lieve, ma insistente. Luis abbassa le mani dal viso e si ritrova a fissare due grandi occhi caldi ed espressivi.
“Cristo!” urla, rotolando all’indietro e coprendosi gli occhi con l’avambraccio.
La ragazza lo guarda, il sopracciglio inarcato, gli arti ancora in posa innaturale: sembra perplessa, e perplessa rimane abbassando lo sguardo su quel corpo abbandonato.
“Sto scomoda così” mormora, e con un gesto deciso riporta in posizione prima il braccio e poi la gamba stortati, che producono un sonoro TAC.
La ragazza si stiracchia, e le giunture scrocchiano come quelle di qualunque persona normale, quindi si mette seduta. “Meglio” esclama, sorridendo timida. Luis non sa cosa dire: passa in rassegna tutti i videogiochi di zombie ai quali abbia giocato, film visti, fumetti letti. Se davvero un’apocalisse zombie si fosse abbattuta in quel momento, lì, in quella vecchia casa di ringhiera, sarebbe stato l’unico a sapere esattamente come comportarsi.
Pensava che i mostri si putrefacessero prima di tornare alla vita, e in vece quella è morta, ma è viva, insomma, si muove, ed è anche piuttosto carina.
“Puoi anche abbassare quel braccio” esordisce la ragazza dopo qualche attimo di silenzio. “non credo di volerti mangiare.”
Luis obbedisce, terrorizzato.
“Io dovrei essere morta.” sentenzia tristemente la ragazza, abbassando lo sguardo e aggrottando le sopracciglia.”Vorrei essere morta” sospira. Solo il vuoto fa eco a quel sospiro, nulla più. Razionalizza, si dice il ragazzo, sembra minuta ma deve avere una buona muscolatura, avrà attutito il colpo. Magari fa parkour e avrà voluto giocarmi un brutto, bruttissimo tiro. Sì, probabilmente è così.
“E allora perché non sono morta?” Singhiozza lei, attorcigliando le dita tra i capelli e chinando il capo; comincia a piangere, con lamenti lunghi e penosi. In un uomo, il pianto di una donna può suscitare due reazioni: quella cavalleresca e quella omicida. Nel nome stesso è racchiusa la definizione, e Luis appartiene alla prima categoria.
E poi, come lasciarsi sfuggire la possibilità di abbracciare una ragazza? Anche se teoricamente morta, ma pur sempre una bella ragazza.
Quindi Luis le striscia vicino e l’avvolge in un abbraccio un po’ forzato, lei si volta e continua a lacrimargli sulla maglietta, respirando affannosamente.
“Su, su, sono sicuro che ci sia una spiegazione per tutto questo.”
“Siii??” esclama la ragazza, soffiandosi sonoramente il naso su un lembo della fu maglietta di Luis.
“Certo, magari non ti sei buttata bene, insomma, ci vuole esperienza per suicidarsi, studio, mica è una cosa istintiva!”
La ragazza si stacca e si asciuga gli occhi con le maniche del pigiama, guardandolo negli occhi con scetticismo.
“Senti, non sono un esperto, ho ipotizzato. Ti saresti dovuta sfracellare la testa, ed invece sei qui, tutta vispa.”
Prende un gran respiro, guardando in cielo: nuvole immobili, nemmeno un filo di vento. E sì che prima di brezza c’è n’era.
Improvvisamente la ragazza si alza, come stizzita: recupera la ciabatta perduta e fa per dirigersi verso la rampa di scale. Guardandola, Luis si accorge di come i suoi passi siano agili e decisi, non zoppica nemmeno.
“Aspetta!” le urla, lei si volta.
“Dimmi almeno come ti chiami…”
“Carla.”
I due si scrutano, diffidenti, straniti. Sembra non ci sia più nulla da dire, che tutto sia finito, malgrado Luis non abbia ancora capito, o carpito, il mistero del cortiletto interno, anzi, vorrebbe fermarla, prenderle la mano e chiederle chi o cosa lei sia, che cosa voglia e soprattutto perché avesse intenzione di suicidarsi. Il ragazzo alza lo sguardo al cielo e, come di sfuggita, coglie una figura fumare, sulla passatoia del secondo piano, il capo rivolto verso di loro; dopo questa scoperta, in contemporanea, emette un gemito prolungato, dolente. Carla lo appella con scherno.
“Che hai? Rovinarmi il suicidio non t’è bastato?”
Ma Luis è troppo impegnato a fissare quella figura, che ora riconosce essere una donna, immobile, la sigaretta tra le dita, lo sguardo fisso su di lui.
“Carla…” la chiama, la voce ridotta ad un sibilo “Vieni qui.”
Lei esplode in una risatina sardonica e scrolla le spalle.
“Guarda, non so cosa sia successo prima, figurati! Avrei voluto solo ammazzarmi, senza troppe complicazioni, sbam, in terra morta e stramorta” continuando a borbottare, la ragazza si avvicina in gran carriera verso Luis.
“Mi hanno licenziato, e mia madre ha lasciato tutto a mio fratello maggiore, dimenticandosi di me! Del tutto! Sono rovinata, e piuttosto che vivere in miseria, arrancando per arrivare a fine mese mi sono detta, dai Carletta bella, buttati giù! Un due tre il gioco e fatto! Al massimo rimarrai invalida e tuo fratello dovrà curarti, volente o nolente. Poi quel tuo discorso lì sul tetto m’ha fatto davvero incacchiare, così farcito di luoghi comuni, così arido; ti sembrano quelle le parole da dire ad una ragazza che si sta per lanciare dal quarto… ”
Carla è arrivata a fianco a Luis ed ha alzato lo sguardo verso il punto d’attenzione del ragazzo, la voce le è morta. La donna sulla passatoia è tanto immobile da sembrare una statua: la mano è meccanicamente raccolta verso le labbra, le dita a stringere la sigaretta, lo sguardo vitreo. Nulla in lei si muove, e nemmeno il fumo della sigaretta, che resta sospeso in aria, una scultura d’arte contemporanea.
“Luis… cosa sta succedendo?” bisbiglia Carla, stringendosi al braccio del ragazzo, intimorita.
Lui continua a fissare la donna immobile, socchiude gli occhi.
Come mosso da un bisogno interno, si libera violentemente dalla stretta di lei e le afferra il braccio, trascinandola verso il portone e restando sordo alle sue proteste veementi.
Con il cuore in gola, apre il portone che dal cortile porta alla strada, con Carla al seguito.
Il silenzio.
I due si ritrovano abbracciati, pietrificati, lo sguardo fisso nella via dove sono solite passare le macchine.
Sono tutte ferme, ma non in sosta: sono cristallizzate, come la donna sulla passatoia, le luci accese, lo smog che si raggomitola in una nuvoletta dai contorni precisi. I ragazzi riescono a scorgere gli abitacoli delle macchine, colmi di esseri umani incastrati nell’ambra del tempo spezzato: uomini d’affari al cellulare, amiche che ridono e messaggiano, senza guardare la strada, una famiglia dai volti tristi, un vecchietto con gli occhiali a fondo di bottiglia.
È la voce di Luis a spezzare il silenzio.
“Carla… è mezzanotte e cinquantanove.”
“E allora?” borbotta lei, continuando a guardare il vecchietto, immobilizzato in una posa di grande sforzo.
“Quando ti sei gettata… era mezzanotte e cinquantotto minuti.” Luis la sente percorsa da un singulto, dalla gola fuoriesce un sospiro tremulo.
“Tu stai capendo qualcosa?”
Sì, nella testa di Luis sta prendendo forma un’idea, niente più che una sciocca intuizione, ma s’avvalora di conferme man mano che la elabora. Prima che Carla si gettasse, rifletteva sul fatto che avrebbe avuto bisogno di più tempo, anche di un’ora soltanto, per poter vivere ciò che durante il giorno non era stato capace di fare. Aveva chiesto a qualcuno, o a qualcosa, di poter sovvertire le leggi del tempo, di poter modificarne lo spazio, ampliarne i concetti. Aveva pregato per una venticinquesima ora, tutta per lui.
E l’aveva ottenuta.
“Allora?”
Luis si volta, è Carla. Perché anche lei, nella sua ora privata di rivincita contro le infrastrutture umane? La guarda fisso negli occhi, poi colma la mente delle sue labbra, ha voglia di baciarle, perché di quella venticinquesima ora non ci sarebbe più stata traccia nel mondo, e quel bacio, se mai fosse accaduto, si sarebbe perso tra i minuti. Carla gli si avvicina, il volto dipinto di paura ma di vezzosa curiosità: con un gesto agile e sereno, Luis la prende tra le braccia e lei si abbandona alla sua stretta, come una sposa, cinta al collo di lui. Luis si sente invadere dal suo profumo melenso, probabilmente vaniglia o gelsomino, e s’inebria. Dunque si avvia con passo lento e sicuro lungo la venticinquesima ora. Sulle labbra, un sorrisetto sardonico.
III
“Forse non ti è chiara la situazione, Luis”
Il ragazzo non alza lo sguardo: si sente terribilmente stanco, l’anima offuscata.
“Devo spiegarti tutto dall’inizio?”
Sì, la prego, mi descriva dall’esterno ciò che ha visto, perché io non sono più capace di vedere, ho scordato come si faccia.
“Bene, chi tace acconsente.” esclama irritato l’uomo seduto davanti a Luis, tanto vicino che le loro ginocchia potrebbero toccarsi, se solo uno dei due si sporgesse abbastanza oltre il confine tra il cordiale e l’intimo. Dal canto suo, il giovane rimane fermo.
“Alle ore 00.58 del giorno 5 maggio dell’anno corrente, abbiamo trovato la signorina Carla Langhi, 23 anni d’età, morta. La signorina riportava una grave lesione al cranio, con una copiosa emorragia; inoltre aveva la gamba e il braccio sinistro con fratture multiple scomposta.”
“Dalla posizione del corpo e dalle fratture, si ipotizza che la Langhi abbia compiuto un tentato atto di suicidio, lanciandosi oltre la ringhiera della sua abitazione, al quarto piano.”
La voce dell’uomo sta mutando di tono: da calma e compassata qual era, assume timbri più profondi, le parole meglio scandite, come soppesate.
“C’eri anche tu con lei, Luis.”
Io?
“Non guardarmi con quella faccia da coglione, puoi essere sconvolto quanto ti piace, ma NOI cose del genere, non le dimentichiamo . Sai come facciamo a saperlo?”
No, non lo voglio sapere, mi aiuti, la prego, non ci vedo più.
“Vi abbiamo trovato poco distanti da casa vostra: la tenevi in braccio, la portavi a spasso. Non dimenticherò mai quella scena; la sua faccia completamente dipinta dal sangue, le braccia storte, quel sorrisetto di merda che avevi stampato sulle labbra. Dove la stavi portando? Perché, poi? La conoscevi?”
Da sempre.
“Inoltre, abbiamo la deposizione di una vostra vicina di casa, la signora De Fusco: era uscita per fumare una sigaretta, quando ha visto il corpo della Langhi schiantarsi in terra, un gran tramestio sulle scale e poi tu, contro il corpo di Carla. La signora ha detto che l’hai guardata a lungo, poi le hai sistemato i vestiti, hai recuperato una delle sue ciabatte e glie l’hai calzata di nuovo al piede. La De Fusco ricorda che l’hai notata e sei rimasto a fissarla negli occhi, sembravi stupito.”
“Poi hai trascinato Carla, come fosse un sacco, verso il portone principale. E dopo t’abbiamo trovato noi.”
Luis rimane in silenzio: ha le parole congelate in gola, le sente, vorrebbe vomitare.
“La tua posizione è proprio brutta, lo capisci questo?”
Cala una cappa d’immobilità, Luis si decide a guardare in viso l’uomo che gli parla: riesce a distinguere in maniera sfocata una figura di stazza abbastanza massiccia, il cranio rasato, una camicia, una divisa. Vede i suoi occhi brillare nel buio che lo circonda, paiono quelli di una bestia.
“Vuoi sapere la verità più schifosa di tutta questa vicenda?” Luis non muove un muscolo.
“Il medico legale ci ha confermato l’ora e la causa del decesso di Carla: 02.10 circa, per dissanguamento. Da quando l’hai trovata in terra a quando è morta, è passata un’ora.
Se tu avessi chiamato subito i soccorsi, Luis, lei sarebbe ancora viva.”
Nessuna reazione, il ragazzo sembra guardare un punto poco sopra la spalla sinistra dell’agente di polizia, e l’uomo non vede davanti a sé un assassino, ma un involucro vuoto, coperto di sangue.
Ma Luis è troppo impegnato a fissare quel punto impreciso dello spazio e, lentamente, un sorriso gli affiora sulle labbra: un sorriso complice, infantile.
Carla, alle spalle dell’agente, gli sorride di rimando.