Sono tempi duri i nostri, per i critici: a loro volta criticati da una società che ormai li etichetta come intellettualoidi pretenziosi e inutili, si ritrovano ormai nell’epoca in cui l’opinione dell’amico su Facebook è ritenuta più valida di quella dell’accademico “di turno” dei quotidiani. E la critica cinematografica non è esente da tale trattamento, ridotta ormai alle semplice stelline alla MyMovies o IMDB.
La più parte di noi infatti è ormai portata a vedere se non male e con diffidenza queste strane figure mitologiche chiamate “critici”, degli intellettuali che hanno la pretesa di far cadere dal cielo le loro analisi di opere d’arte proponendo spunti di riflessione. Non capiscono forse che ormai non conta più solo la loro opinione, ma quella di tutti, che sia pubblicata su Facebook o altrove?
Viviamo infatti nel tempo della rivincita dei non esperti, per chiamarli così; e, per quanto sia meraviglioso che ognuno possa esprimere la propria visione, è pericoloso liquidare una figura così importante come quella del critico, una mossa pericolosa soprattutto per il Cinema. Dobbiamo infatti chiederci quale sia l’effettiva utilità di affidarci ad un esperto.
Storicamente, dalla nascita del cinema stesso, la figura del critico ha toccato l’apice della sua espressione durante gli anni Sessanta, quando il suo giudizio non solo era onorevole, ma era anche ascoltato dal pubblico, che dunque seguiva le sue indicazioni. Tale dinamica in particolare portò il botteghino del 1960 a vedere il successo di film acclamati dalla critica, quali La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli e L’avventura. È un evento alquanto raro attualmente ma che all’epoca era la consuetudine.
Così, i critici, legittimati anche dal parere popolare, avevano una significativa incidenza sul reale, tanto che alcuni di essi incominciarono a ragionare su di esso, esprimendo quello che secondo loro dovevano essere dei nuovi principi che rappresentassero al meglio la realtà. È il caso dei critici dei Cahiers du Cinema, diventati poi esponenti della Nouvelle Vague francese, e dei critici della rivista Cinema che crearono la più grande tendenza cinematografica italiana, il Neorealismo. Nacque così sia in Francia che in Italia una rivoluzione espressiva che era innanzitutto partita dalla riflessione teorica sulla propria epoca, portata avanti da coloro che sapevano riconoscere o interpretare le opere d’arte e conoscevano l’incidenza che queste potevano avere sulla realtà.
Tali scuole -anche se più propriamente, solo la Nouvelle Vague è considerabile tale- crearono un vero e proprio linguaggio espressivo, veicolo di idee e di una visione del mondo, esattamente come ha sempre fatto nel corso della sua storia la letteratura; così, dei critici diventarono registi.
Viene dunque da chiedersi come, in un’epoca complessa come la nostra, che sta affrontando cambiamenti su ogni fronte immaginabile, che ci sta ponendo di fronte a sfide mai viste prima, come, appunto, possiamo immaginare un’arte che non abbia le sue radici nella riflessione teorica e che non rifletta profondamente su tali cambiamenti. Proprio la complessità del nostro tempo richiede infatti artisti che siano colti, cioè non solo che abbiano studiato cosa sia venuto prima di loro, ma che sappiano riflettere sull’arte.
Dunque, chi meglio di un critico cinematografico può riflettere sul tale arte, creando una rivoluzione espressiva? Certo, tale rivoluzione forse ora non sarà guidata direttamente dai critici, ma la ricerca e la loro analisi rimangono fondamentali, mantenendo la possibilità ultima di ispirare nuovi artisti e, magari, giovani artisti che in quest’epoca sono nati e che possano così guardare al loro mondo in maniera critica, invitando alla riflessione tramite uno dei mezzi più potenti di sempre, quello cinematografico appunto.
Se Victor Hugo diceva “Peuples! Écoutez le poète!” , poiché vi guiderà tra le tenebre del futuro; l’invito, soprattutto per i registi, ma esteso a tutti, è quello di ascoltare di più il critico cinematografico, che forse saprà farsi altrettanto interprete della nostra attualità.