Quando si parla di sfruttamento minorile, le prime immagini che vengono alla mente riguardano i bambini indiani che cuciono palloni o quelli bengalesi che realizzano capi per i grandi marchi di abbigliamento; pochi conoscono la situazione dei bambini pescatori del Ghana, di quelli minatori in Cambogia o di quelli che lavorano nelle piantagioni di tè in Zimbabwe. Ma, forse per proteggere noi stessi da quella che è la peggior barbarie, non pensiamo subito a quella vasta e fruttuosa industria che è lo sfruttamento sessuale dei minori.
E anche quando ci pensiamo, sembra sempre lontano, relegato in paesi “esotici” e molto poveri, come Vietnam e Brasile. Ma soprattutto immaginiamo il turista sessuale come un “maiale”, depravato e pedofilo. In realtà, per essere così fiorente, l’apparato del turismo sessuale ingloba una grande quantità di persone, anche le meno sospettabili. È un’industria in continua crescita ed espansione, grazie anche alla globalizzazione che ha portato una maggior facilità di spostamento. Tutto ciò è stato evidenziato dal Global Study on the Sexual Exploitation of Children in Travel and Tourism 2016, frutto di due anni di ricerca di ECPAT, ONG che si occupa di queste tematiche, in collaborazione con numerosi esperti a livello mondiale.
Dalla relazione emerge che non c’è una tipologia precisa di vittima: hanno sesso diverso, età diverse, background diversi e sono diverse anche le circostanze che le portano a prostituirsi. L’unica cosa che tutte le vittime hanno in comune è la vulnerabilità e, provenendo spesso da zone povere, non hanno nemmeno delle strutture riabilitative a cui rivolgersi né una polizia efficace che intervenga contro il loro sfruttamento.
Non esiste nemmeno un figura-tipo di turista sessuale. Si tratta per lo più di uomini, ma il fenomeno riguarda anche molte donne. Ci sono gli habitué, i pedofili e, stragrande maggioranza, i turisti occasionali, spesso in viaggio per lavoro, in cerca di un’esperienza trasgressiva. Lo studio evidenzia come l’età media italiana si sia abbassata, comprendendo soggetti tra i 20 e i 40 anni, provenienti dai più disparati strati sociali. Single o sposati, questi turisti del sesso non sono soggetti psichiatrici, ma persone comuni: padri, madri, figli, vicini di casa, colleghi, persone del tutto innocue. Alcuni sono inoltre “trasgressori situazionali”, che non hanno come obiettivo lo sfruttamento sessuale di un minore ma che, trovandosi in un contesto in cui ciò è tollerato, finiscono per cascarci.
Sembra un problema molto lontano, ma coinvolge sempre più persone e sempre più nazioni. Pam Cope, fondatrice dell’associazione Touch A Life, nel romanzo autobiografico Il paese dei bambini che sorridono (Edizioni Piemme, 2009), racconta la sua esperienza in Vietnam e Cambogia, dove è stata a stretto contatto con i bambini di strada e con quelli sfruttati dal turismo sessuale. La maggior parte delle bambine costrette a prostituirsi in Cambogia proviene dal Vietnam, lo Stato confinante. La donna racconta come le ragazzine, in vestiti succinti e pesantemente truccate, vengano adocchiate fuori dai bar da uomini occidentali e fatte sedere ai loro tavoli, per poi salire in albergo. E come tutto ciò sia assolutamente normale, non desti alcuna reazione né nelle persone del posto né negli altri turisti presenti. Spesso le ragazzine diventano eroinomani, costrette a drogarsi dai loro padroni in modo da essere più docili. I bordelli sono baracche fatiscenti, piccole ed anguste. I prezzi sono irrisori ed aumentano col diminuire dell’età della bambina, fino a decuplicare per una vergine. E per avere una vergine tutta per sé, si arriva a fare sesso con bambine di cinque anni.
Pienamente calzante è il paragone fatto dalla Cope tra il campo di internamento Tuol Sleng e il quartiere a luci rosse Svay Pak, entrambi a Phnom Phen, in Cambogia. Il primo, creato nel 1975 dal dittatore Pol Pot, diede la morte a circa 17.000 persone, dopo un periodo di prigionia, interrogatori e torture. Il secondo, ospita per lo più prostitute minorenni vietnamite, che vivono e lavorano in baracche squallide ed arrugginite. “Le stesse dimensioni, lo stesso pavimento lurido, gli stessi orrendi segreti” delle celle di detenzione a Tuol Sleng, sostiene l’autrice. Ricorda inoltre che presso il monumento alla memoria del campo di sterminio di Choeung Ek, sempre a Phnom Phen, all’epoca del suo viaggio, era presente un libro su cui i visitatori erano invitati a lasciare un commento. Uno recitava: “Non dimentichiamo questa atrocità, affinché non si ripeta mai più”. La provocazione che la Cope lancia nel suo libro è forte:
“Fra trent’anni, uno di quei bordelli sarebbe diventato un museo? Le stanze in cui venivano condotti i clienti sarebbero rimaste intatte, […] con un registro per esprimere disgusto e sgomento nei confronti di un mondo che sapeva cosa stava accadendo, e non aveva fatto niente per impedirlo?”.
Fonti:Global Study on the Sexual Exploitation of Children in Travel and Tourism 2016
Pam Cope, Il paese dei bambini che sorridono, Edizioni Piemme, 2009