Knight of Cups, ormai penultimo lavoro di Terrence Malick data l’uscita all’estero di Voyage of Time, è il tentativo del regista texano di esplorare i patimenti sentimentali e spirituali dell’uomo. Anzi, di un uomo. Di fatto, la sua sceneggiatura si limita ad osservare la vita di una singolarità umana, la cui esperienza personale difficilmente è estendibile all’universale. Premesso che le interpretazioni degli attori sono ottime, quella di Cate Blanchett in particolare, e che la fotografia è impeccabile, considerata ad un livello puramente tecnico e deprivato dal significato che veicola. Le fallacie emergono una volta che si prende in considerazione il messaggio che il film incarna.
“The Pilgrim’s Progress / From this World, to That which is to come: / Delivered Under the Similitude of a Dream / Wherein is Discovered, / The Manner of His Setting Out, / His Dangerous Journey; And safe / Arrival at the Desired Country”
Ad aprire la storia è la lettura da parte del narratore (Ben Kingsley) dell’originale titolo in frontespizio del romanzo-allegoria di John Bunyan, Il pellegrinaggio del cristiano, che assieme ad altri spunti di matrice religiosa e mistica –L’Inno della Perla, il gioco dei tarocchi, e via dicendo- forma il nucleo narrativo e simbolico dell’opera di Malick. L’ispirazione però si trasforma in una riproposizione tematica che scade nell’apatia critica e nell’accettazione del dogma. Il dubbio pervade la storia del protagonista, Rick (Christian Bale), esistendo tuttavia in una forma vuota e priva di riferimenti comportamentali. Dubitare prevede una sfida, anzitutto l’emergere di una problematica da affrontare e che pone in “pericolo” il soggetto, che mediante l’investigazione del pensiero riesce a risolverla e superare, idealmente, lo stato dubitativo. Il pericolo -quello esistenziale su tutti-, insito nel dubbio e nel viaggio per dissolverlo, al contrario di quanto è affermato nella suddetta frase iniziale (“his dangerous journey”), è totalmente inesistente, se non qualora fosse inteso come scaturente da un mero capriccio vittimistico del protagonista.
Rick è uno sceneggiatore e, in quanto tale, serve a Malick come strumento attraverso il quale abbozzare una critica all’edonismo hollywoodiano, all’agire lascivo e senza mira; critica presentata qui nella forma dell’Inno della Perla, passaggio degli apocrifi Atti di Tommaso, nel quale è raccontata la storia di un uomo che, mandato dal padre (“il re dei re”) in Egitto a recuperare una perla, si perde tra i piaceri e si lascia sedurre dalla vita materialista, ricordandosi del suo compito solo in seguito ad una missiva del padre che lo fa rinsavire. Tuttavia, in questo modo la storia, quella evangelica come quella malickiana che alla prima si rifà, attua una schematica e semplicistica divisione del mondo a partire dalle categorie morali di “bene e male”, che nel film vengono presentate e più volte richiamate nella diade di “luce e oscurità”, la cui monolitica presenza nella narrazione ne tradisce le anacronistiche e cieche aspirazioni manichee.
La struttura della pellicola, altrettanto schematica e semanticamente prevedibile, è affidata ad otto capitoli, sette dei quali portano nomi di carte dei tarocchi, ognuna a riferimento di uno o più particolari personaggi che compongono il dedalo vitale da cui Rick è attraversato. Fa eccezione l’ottavo e ultimo capitolo, il cui titolo è la sintesi del punto d’arrivo morale dell’opera: “Freedom”, traguardo curioso per un individuo che non ha concreti impedimenti alla propria libertà, che di conseguenza si ritrova ingabbiato nella sua stessa ipocrita ricerca di un essere che Malick non riesce ad individuare nell’alterità, qui vissuta solo in chiave funzionale ai fini dell’individuo.
È il ruolo che ricoprono inevitabilmente le donne della sua vita, ridotte ad oggetti trasparenti relegati al posto metaforico del passeggero, mentre Rick è intento a cercarsi. Oltre al presuntuoso moralismo, in Knight of Cups è così presente anche un triste maschio-centrismo: le donne non sono guide, ma strumenti che servono a soddisfare i suoi momentanei ed estemporanei dubbi. Sono risposte usa e getta. Le loro voci, come quelle di tutti gli altri, vanno e vengono, suoni che cadono inascoltati nell’oblio dei ricordi e delle onde. L’acqua è, per l’appunto, usata da Malick come la costante allegoria dell’incontro e della rimembranza; essa cattura e trattiene i ricordi del protagonista in un flusso caotico e indistinto, nel quale si mescolano il desiderio del ritorno e la reiterata tensione verso una libertà che Rick crede di non avere o che crede essere il solo obiettivo valido da raggiungere.
Si risolve così dapprima a cercarla nella infantile ribellione di una prostituta (Imogen Poots), poi discendendo ancor più a fondo nella ricerca del piacere carnale, di cui è allegoria il libertino Tonio (Antonio Banderas), che arriva a dirgli: “There are no principles, just circumstances”. Nessuna di queste soluzioni però lo soddisfa: l’occhio moralizzatore di Malick si abbatte sui poveri e ignari edonisti, sui relativisti del pensiero debole, le cui ragioni non si preoccupa di esplorare, perché non sia mai che ostacolino lo sviluppo del suo uomo-Cristo, in fuga dalle tentazioni nel deserto dei piaceri. Eppure, sia dell’uomo che della figura di Cristo, il protagonista malickiano ha ben poco, caratterizzandosi piuttosto come una glorificazione dell’individualismo spirituale, giustificato da una malcelata “etica protestante”.
“Who are you?”, chiede nel quinto capitolo, “The Tower”, alla sua nuova amante (Freida Pinto). “A traveler, a wanderer. Like you”, gli viene risposto. Ma la condizione di estraneità, di alterità dal contingente, non è data da questo nomadismo pseudo-mistico, bensì dalla staticità e tragicità della condizione. Lo straniero non attraversa il mondo, ma ne è attraversato e imprigionato. Questa statica e apatica passività potrebbe, per qualcuno, emergere dai modi in cui Rick pare venga a trovarsi nei frammenti che compongono il film, invece di trovarvisi per propria diretta volontà e decisione. Interpretazione però negata da una parola che Rick pronuncia proprio nel corso di questo capitolo: guardando il panorama disegnato dai grattacieli di Los Angeles, dice a sé stesso “higher”, tutt’altro che una confessione di obbligatorio immobilismo ma una dichiarazione di voler partecipare al gioco delle finzioni competitive e alla corsa per l’elevazione trascendentale.
È il trionfo del singolo contro il mondo da egli percepito come indifferente e distante, opinione che non è difficile intuire essere una conseguenza del suo stesso egocentrismo e rifiuto della diversità. Quando mediante il fratello (Wes Bentley) incontra la povertà di chi vive per strada, non viene mai messo in discussione il suo status sociale in opposizione a quello di chi veramente si trova in una situazione sofferente, della quale è solo mostrato il carattere ottimista nei riguardi della vita: il messaggio è forse che si dovrebbe imparare dalla semplice e umile felicità di queste persone? Rick tuttavia non fa alcuno sforzo per avvicinarsi alla loro realtà, per comprenderla e condividerla, passandovi in mezzo con indifferenza. Il suo, come quello del regista, è uno sguardo che si rivela superficiale ed erede del paternalismo di stampo colonialista, di coloro che credono di detenere la verità ultima, la sola giusta da perseguire.
Ad affiancare le perenni voci del narratore e dei monologhi di Rick, sopravviene la figura paterna, Joseph (Brian Dennehy), summa allegorica della morale individualistica, gerarchica e protestante che infesta Knight of Cups. Anch’egli si narra in prima persona nel corso del film, intervenendo come una delle tante voci che infestano i frammenti della vita del figlio, che piuttosto che essere voci appartenenti a e formulate da persone scisse dalla sua personalità, appaiono come sue modulazioni, sue fantasie atte a cullare il proprio ego nella cecità del proprio inganno: nuovamente si erge l’occhio giustificatorio e moralizzatore di Malick, per il quale sembra siano corrette le autogiustificazioni di un individuo annegato nel privilegio. La possibilità di pensiero critico svanisce così sotto gli strati e i frammenti di una storia che tende a valorizzare un egotismo malsano, del quale il nostro tempo è terribilmente intriso.
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