Negli anni Sessanta incominciarono a nascere i presupposti della nuova condizione postmoderna dell’arte: l’artista era ormai messo in secondo piano rispetto alla società pop, e perdeva ufficialmente lo status di interprete e traduttore della realtà. Alla luce di tale fenomeno, l’Italia fu caratterizzata dal ’60 fino ai primi anni dell’80 da movimenti sperimentatori e innovatori, che cercavano di dare una nuova dimensione all’artista, le neovanguardie.
La NeoAvanguardia era nata dall’idea per cui l’eversione dovesse prima di tutto essere linguistica, rifiutando forme e stili tradizionali. Ciò perché si voleva mandare un chiaro messaggio di rifiuto della cultura borghese, distruggendo le stesse parole alla sua base. Così nel 1963 si riunì a Palermo per la prima volta il Gruppo ’63, di cui alcuni puntarono alla generica sperimentazione culturologica, mentre altri si impegnarono politicamente e ideologicamente con intento rivoluzionario, come Sanguineti.
Quest’ultimo ad esempio credeva che solo uno stravolgimento linguistico completo potesse permettere una rappresentazione autentica, e non più sublime, della realtà. “Se la società contemporanea è una putrida palude, anche la poesia non può che ridursi a magma” (Alberto Casadei), e così la nuova opera doveva saper giocare con linguaggio e forme, svuotandole dal loro interno, creando un vero e proprio pastiche.
Come fanno notare i critici però, i risultati poetici migliori di questo periodo spesso furono di esponenti che non propugnavano posizioni completamente distruttive, come Amelia Rosselli, capace di far emergere dai drammi personali i drammi collettivi; o ancora da autori che ottennero una forma variegata con gli anni, come Luzi in “Nel Magma”, Sereni in “Gli strumenti umani” e Zanzotto in “La Beltà”.
In ogni caso, le differenti e inconciliabili linee di approccio alla base del Gruppo ’63 portarono all’inevitabile scioglimento,dovuto anche e soprattutto alle diverse reazione agli eventi del ’68. Così le spinte sperimentali incominciarono a smorzarsi durante gli anni ’70, seppure tale esperienza del ’63 influenzò moltissimo la letteratura successiva, aprendo uno spazio di riflessione con il quale molti letterati dovettero confrontarsi. Inoltre incominciò a crearsi un vero e proprio distacco tra la letteratura e la massa, che prediligeva una nuova forma di poesia, ovvero le canzoni dei cantautori, e la saggistica politica, decretando un periodo di crisi narrativa.
Per la narrativa infatti si registra in questi anni una vera e propria crisi: questa non era più considerata adatta ad interpretare il presente, e così critici ed editoria indirizzarono il loro interesse verso testi che fuoriuscissero dai consueti binari dei generi. Di conseguenza sono molti i tentativi negli anni Settanta di coniugare narrativa e saggismo, per ottenere un genere misto che descrivesse al meglio la situazione drammatica soprattutto degli anni di Piombo.
Al di là degli esperimenti, ormai era evidente la crisi della funzione stessa della letteratura, tanto che Montale, soprattutto al riguardo della poesia, nel 1975 scrisse: “L’arte è diventata produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via, in attesa di un mondo nel quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. In tale paesaggio di esibizionismo isterico (cioè di esagitata mostra di sé cui ci abituano giornalisti e televisione), quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”.
Proprio durante questa crisi della poetica tradizionale, negli anni ’70 vediamo la continuazione della crescita della poesia dialettale, incominciata a registrarsi nel decennio precedente: il vernacolo diventa una scelta controcorrente, per combattere l’omologazione, l’inautenticità e la violenza postmoderna di cui la lingua italiana è il simbolo. Quella degli esponenti dialettali, come Franco Loi o Ignazio Buttitta, è una scelta di rottura con il sistema, che verrà poi adottata anche dallo stesso pubblico, che rivendicherà dalla metà degli anni ’70 il diritto a leggere poesie seppur senza gli strumenti critici considerati fondamentali.
In narrativa invece l’epoca postmoderna fu per la maggior parte accolta, tanto che abbiamo l’esempio illustre di un Italo Calvino, tra i primi a notare il cambiamento, che decise di adattarvisi modificando i propri modelli narrativi, soprattutto in “ Se una notte d’inverno un viaggiatore”. L’opera che però ebbe più successo, e tutt’ora è considerata la vera portavoce dell’epoca postmoderna, è “Il nome della rosa” di Eco, che fu riconosciuta a livello mondiale come la perfetta sintesi di componenti citazionistiche ed ipercolte. Il romanzo di Eco fu pubblicato nel 1980, data simbolica perché è proprio con questo periodo che li studiosi fanno coincidere l’entrata definitiva nell’epoca postmoderna.
Fonti e credits:
- Alberto Casadei, Il Novecento, seconda edizione, Il Mulino
- Alberto Casadei, Roberto Santagata, Manuale di letteratura italiana contemporanea, Laterza, 2009
- immagine intestazione © Rai Letteratura