Avete mai fatto caso alle colonne sonore dei film Marvel? Se vi chiedessi, qui su due piedi, di fischiettare il tema, chessò, di Thor, il 90% di voi (me compreso) rimarrebbe di sasso nell’accorgersi di quanto poco film dal successo di pubblico così pervasivo abbiano lasciato traccia nelle orecchie della gente. Eppure non è sempre stato così. Si pensi a Harry Potter, Indiana Jones, Star Wars, tutti film che hanno costruito il proprio successo anche grazie a una colonna sonora che risuona ancora oggi, forte tanto quanto le immagini.
Che è successo alle colonne sonore hollywoodiane? Ingenuamente si potrebbe imputare la colpa di questo appiattimento alla mancanza di compositori all’altezza, ma basta scorrere i titoli di coda di qualsiasi film ad alto budget per essere immediatamente smentiti. Hans Zimmer, Danny Elfman, Alexandre Desplat sono ancora lì, e con loro schiere di talentuosissimi musicisti più o meno noti al grande pubblico.
Il “problema”, se così lo si vuole definire, è più profondo, radicale. Investe, purtroppo, gran parte della produzione cinematografica attuale, ed è la diretta conseguenza della tendenza, tipicamente hollywoodiana, a voler massimizzare il ricavo del film minimizzando al tempo stesso i rischi. In un’ottica di “industria cinematografica” è perfettamente comprensibile. Ma procediamo con ordine.
Nella fase di produzione di un film, quando non esiste ancora una colonna sonora originale, il regista è solito utilizzare dei brani provvisori (le cosiddette temp tracks) per farsi un’idea preliminare su come sarà il risultato finale. Ora, pensate di lavorare per mesi e mesi all’editing di una scena, e associare giorno dopo giorno quelle immagini a quella musica, per quanto provvisoria possa essere: il condizionamento psicologico è forte, e più ci si lavora più quella colonna sonora viene interiorizzata, assorbita all’interno del tessuto del film. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se, nelle fasi finali della post-produzione, al Danny Elfman di turno viene ordinato di imitare la temp track ai limiti del plagio.
Come puntualizza Tony Zhou nel suo video-saggio (lo trovate QUI), accanto ai motivi psicologici sussistono anche motivi di natura economica. Banalmente parlando, perché un produttore dovrebbe investire su una colonna sonora totalmente originale (con tutti i rischi del caso) quando, con il minimo sforzo, si può riadattare leggermente un brano già consolidato? Questo porta a un appiattimento generale dei brani, usati spesso in maniera convenzionale e prevedibile per ridurre i margini di rischio.
In contrapposizione alla visione di Zhou, Dan Golding (QUI) porta una lettura diversa e un po’ più ottimistica del fenomeno. È l’avvento dei programmi di composizione digitale, secondo lui, ad aver modificato il modo in cui i compositori si approcciano alle colonne sonore. Se in passato era l’orchestra nella sua multiforme interezza ad accompagnare il film, ora è possibile ricorrere a programmi digitali con una conseguente e vertiginosa diminuzione dei costi. Il diffondersi di questo processo, secondo Golding, ha portato al dilagare di suono “ritmici”, facilmente riproducibili al computer (le onnipresenti percussioni, o i classici effetti “a la Hans Zimmer”), a scapito di violini, flauti e suoni più “melodici”. Alla melodia fischiettabile, quindi, si sostituisce un sottobosco di effetti sonori ritmici, altrettanto importanti ma facilmente dimenticabili.
Per concludere la riflessione vorrei finire con una nota di ottimismo. In un panorama dominato da colonne sonore standardizzate, un compositore come Disasterpeace (It Follows) dimostra di saper utilizzare le possibilità offerte dalla musica elettronica per dare forma a nuovi incubi. Inutile poi citare il maestro Morricone, che in Hateful Eight ha abbattuto le barriere tra cinema, teatro e opera musicale.