Io sbuffo perché un bel concerto non deve essere per forza a buon prezzo!

Nelle ultime settimane tutti i quotidiani, cartacei e web, si sono molto interessati al “caso Coldplay”, ovvero al fatto che i biglietti per una delle due date italiane della band, previste per luglio 2017, siano stati venduti tutti in pochissimo tempo e tutt’altro che a buon prezzo. 

Tralasciando il pur preoccupante problema del secondary ticketing (Federica Trucchia ne parla qui), la domanda è: può veramente avere senso spendere più di 100 euro per un concerto di questo tipo? Insomma, non stiamo parlando di una reunion dei Rolling Stones!

Nel raccontarvi perché sì, ne vale la pena, cercherò di darvi tre buone ragioni frutto dalla mia esperienza da scettico con un biglietto in mano e 120 euro in meno.

Ragione n°1 – L’attesa

Ecco, immaginate di averlo in mano quel biglietto. Sarete euforici probabilmente, ma avete comunque barattato 100 e passa euro per quel pezzo di carta. Nel mentre, aspettate in coda, passate i controlli e continuate a pensarci: e se poi suonano un’ora e mezza e tutti a casa?

Dopo qualche ora di coda finalmente siete dentro. La musica continua che fa da sottofondo, i logo simil-mandala sugli schermi sono quelli di ogni concerto che si rispetti e senza troppa fatica ve ne accorgete subito: qui l’atmosfera è quella delle occasioni uniche. Lo si capisce anche dai “gruppi spalla” che si esibiscono già da tre ore prima del concerto: l’emergente Alessia Cara (non lo sapevate ma la sua Here è stampata nella vostra testa dallo scorso inverno) e la più eccentrica Lianne La Havas, due che da sole potrebbero valere un biglietto a parte. I loro ritmi RnB e soul fanno ondeggiare qualche testa, qualcun’altro inizia a canticchiare e gli spalti si riempiono. Poi si spengono le ultime note, La Havas saluta e ringrazia, mentre sul palco appare qualche tecnico in nero.

Ragione n°2 – Chi canta per chi?

Entrano le chitarre, i timpani, le aste per i microfoni e quel pianoforte. Lo piazzano lì, in mezzo al palco, e sembra già di sentire le note di The Scientist uscire dai suoi tasti colorati. Ecco sì, quella la sai, ma le altre 20? Tra poco saranno lì tutti a cantare canzoni che tu probabilmente non hai neanche mai sentito.

Le vere star non si fanno attendere molto: i Coldplay arrivano e prima di loro, Chris Martin. Salta come un grillo tra la batteria e la passerella che arriva in mezzo al pubblico e dall’entusiasmo che ci mettono ti viene quasi da pensare che siano stati loro ad aspettare te, più che il contrario.

I pezzi si susseguono in ordine sparso: a pietre miliari suonate in acustico (Yellow, Fix You) si alternano le esplosioni di colore e musica di Every teardrop is a waterfall, Clocks e Charlie Brown. Le prime sono andate e le sapevi quasi tutte; ti è andata bene tutto sommato, ma forse è adesso che inizia la parte noiosa. E invece Martin fa il maestro d’orchestra: incita il pubblico, fa il conto alla rovescia prima dei ritornelli, chiede a tutti di ballare con lui e un paio di volte, stremato, si sdraia ad occhi chiusi sul palchetto al centro dello stadio: capisci che le vuole tutte quelle 50.000 voci e le vuole per sé. 

Ti viene eccome il dubbio: cantano loro per me o io per loro?

Ragione n°3 – I colori

Ogni pezzo si collega all’altro e quasi sempre il ritmo è accompagnato dai colori dei braccialetti luminosi distribuiti ad ognuno. Il colpo d’occhio è unico. Non ti ricordi neanche quando hai iniziato a saltare: era questo pezzo o da quello prima ancora? E quando ti sembra di esserti abituato anche a questo, dal palco esplodono fiammate alte 5 metri e lo stadio si riempie di palloni gonfiabili di tutti i colori che saltano in giro per mezz’ora; sembrano non finire più.

Dopo due ore di concerto ininterrotto la sensazione è di essere lì da tutto il giorno e di poterci rimanere almeno per un altro ancora, tanta è l’adrenalina in corpo.

A concerto concluso gli spettatori si avviano verso le uscite con le facce di leoni sazi e soddisfatti. Si alza qualche coro sparso e negli occhi di tutti c’è la sensazione di aver visto uno spettacolo per cui ancora tra anni varrà la pena di dire “io c’ero”. E quella sensazione c’è anche nei tuoi di occhi, quelli di uno spettatore profano, un imbucato in fin dei conti. Un imbucato che ha cantato per due ore e mezza senza fermarsi e che adesso ne vorrebbe ancora, e ancora.

Siamo d’accordo, ogni concerto è una storia a sé e potrebbe non andare sempre così bene. Ma anche molti di coloro che hanno viaggiato e fatto ore di coda per salire su “The Floating Piers” alla fine l’hanno trovato stupendo. E alzi la mano chi ha avuto tutto il tempo di contemplare la Gioconda in santa pace dopo aver preso aerei e treni per averla davanti.

Il mio parere è che farne una questione di soldi, soprattutto in un’epoca in cui chiunque sembra poter accantonare qualche risparmio per volare a New York, è riduttivo. In fin dei conti, dipende tutto dagli occhi con cui si guarda.

E vai a sapere che nel biglietto più caro di sempre non ne siano inclusi un paio nuovi.

 

 

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