1962. Una moneta cade nel cappello di un malinconico suonatore, alla stazione ferroviaria di Bonn. Colpisce la sua sigaretta, la sospinge troppo da parte. Egli la rimette al posto giusto e continua a cantare: “Il povero Papa Giovanni…”.
Si chiude così il sipario sull’ultimo atto del dramma umano di Hans Schnier, il clown triste della Germania del Dopoguerra. Nelle note dissonanti della sua chitarra risuonano il dolore dell’abbandono da parte dell’amata Maria e la disillusione artistica di un intrattenitore fallito, capitolato miseramente davanti al suo pubblico al termine di un deludente cabaret. Umiliato e zoppicante, sprofonda nello squallore di un vecchio appartamento a Bonn e tenta la sua ultima commedia, ricomporre la trama di un’esistenza segnata dai continui scacchi, dall’inettitudine giovanile e dal mancato adattamento, che lo condurranno all’estinzione dalla società.
Attaccato al filo del telefono, affida il proprio testamento spirituale a una serie di telefonate agli spettri del suo passato, alternando il rancore al sarcasmo verso le convenzioni borghesi e il settarismo cattolico. Rivendicando, in ostinata controtendenza, la propria anarchia romantica, il clown dà un soffio fatale al castello di carta dei rapporti sociali e famigliari, codificati da malcelate ipocrisie, ma finirà ricoperto dalle macerie della propria illusione sentimentale, che avrebbe dovuto sancire il trionfo della leggerezza, sensuale e beffarda, sul perbenismo.
Tale parabola discendente è rievocata dal flusso lirico dei ricordi, eredità dolorosa e inalienabile, in rapida e mutevole evoluzione, contro l’immobilismo ideologico di taluni contemporanei e gli automatismi nevrotici di altri.
Alla stazione ferroviaria di Bonn, mentre intona la sua straziante liturgia della fine, Hans Schnier è una vera “maschera nuda”, che, a sipario chiuso, recita a sé stesso la tragedia della memoria personale.
Fonti: produzione intellettuale propria