di Federica Tosadori
La prima pioggia dell’anno, con le sue gocce azzurre spalmate sui vetri e la sua voce insistente, come un canto di sottofondo, il rumore atavico di una tribù nel centro della foresta, un disco dimenticato a girare… Tutte le volte che pensava all’acqua e al suo ciclo continuo tra terra e cielo se ne meravigliava, di quanto fosse incredibile. Non cambia niente, eppure cambia tutto: ghiaccio, fiumi, laghi, mari, oceani, vapore, nuvole, pioggia. Così diversa, così uguale: l’acqua. Eppure non l’aveva mai vista. La cosa che adorava di più di quell’elemento era sentire sulle mani il suo scorrere fluido, tanto che concentrandosi, poteva smettere di avvertirlo. L’acqua non era sulla sua pelle, ma nella sua mente, a bagnare i suoi ricordi e la sua vita, tutta fatta di buio e di mistero.
«Cosa credi che il mare sia bello da vedere? È semplicemente un rincorrersi di onde blu. Che poi non sono davvero blu, perché se le guardi bene non hanno colore, e questa è una cosa terribile! Ma tanto a te cosa importa? Il blu per te è solo un concetto, che io ti dica blu o verde è uguale, quindi probabilmente la tua idea di blu è più vera di quella che noi umani vedenti ci siamo creati in migliaia di anni…» Poteva andare avanti a parlare per ore Federico, avanzando tesi su tesi per avvalorare la sua teoria su “quanto fosse brutto il mare”. Federico faceva la strada di ritorno da scuola con me, lo conoscevo da una vita, e mai aveva espresso un qualche coinvolgimento emotivo, o aveva dimostrato un po’ di entusiasmo per qualche cosa. A volte mi diceva che quasi avrebbe preferito essere come me, e non vedere niente, che tanto non ne valeva la pena, e che era molto meglio immaginarsela la vita, che viverla. Sì, insomma, un tipo di quelli che dice le cose senza tanto rifletterci. La strada dalla scuola a casa consisteva in una lunga via grigia costeggiante i binari del treno; grigia perché la vedevo con gli occhi di Federico. Casa mia era proprio lì, vicino alla stazione; di treni ne passavano pochi dal nostro piccolo paese sulla costa, e quasi mai scendeva qualcuno. Proprio a metà strada c’era un sottopassaggio che sbucava direttamente sulla spiaggia.
Federico non trovava niente di che nel mare. Eppure nonostante da lui ci si potesse aspettare una cosa del genere, non era l’unico che si lamentava. Qualche pomeriggio andavo volentieri al bar del paese, giusto per sentire i vecchi ridere e la barista smadonnare. I suoni delle loro voci si mescolavano nella mia testa creando un vortice di sensazioni molto simili a quelle che provavo sognando. Tra queste voci la mia preferita era quella di Gustavo: roca al punto giusto e sempre sarcastica come se in fondo ci fosse un sacco da ridere su qualsiasi cosa. «Il mare, ahah, certo, il mare. Questa cosa fantastica che piace a tutti, ahah…» «Veramente sto facendo molta fatica a trovare qualcuno a cui piaccia il mare». Forse non mi aveva sentito, perché andò avanti: «È tutto imbrattato di petrolio e pieno di rifiuti, se andiamo avanti così prima o poi i pesci li troveremo già impacchettati, ahah». Si divertiva a sbeffeggiare il mare, a sbeffeggiare me, a sbeffeggiare ogni cosa. «Cosa credi che sia così tanto meraviglioso guardare una cosa che non finisce? Vedere un orizzonte confuso e lontano? Ahah, ti sbagli se la pensi così. Il mare fa schifo».
Passeggiavo da solo con il mio bastone sotto la pioggia, e assaporavo la densità di ciascuna goccia d’acqua: «Chissà se sono state mare una volta?». Quando arrivavo a casa mia mamma era sempre molto nervosa; lavorava alla drogheria del paese e non aveva mai un attimo di calma. Mio padre se n’era andato alla mia nascita e non si era mai più fatto sentire. Inoltre abitavamo sopra una stazione, e per quanto passassero pochi treni, il rumore poteva risultare davvero insopportabile perfino nell’abitudine. «Il mare mi innervosisce. Se ne sta lì placido senza fare mai niente, somatizza, somatizza, somatizza e poi ogni tanto, inaspettatamente decide di incazzarsi e di incasinare tutto. Ti sembra questo il modo giusto di comportarsi? E poi quel suono continuo, ssshhh, ssshhh, per non parlare dei giorni come questo in cui piove, rumore, su rumore, su rumore, e il treno… ah fammi uscire». Si sbatteva la porta alle spalle, dandomi un frettoloso bacio sulla fronte. Lei sentiva troppo, io non vedevo niente.
«Sei tu il ragazzo che chiede sempre a tutti come sia il mare?» una voce femminile sonora e irriverente stravolse il mio abitudinario percorso scuola-bar-casa.
«Sono appena scesa dal treno e ti ho visto, ho pensato di fermarti subito, giusto per sapere…»
«Non pensavo di essere così famoso anche fuori da questo paese!»
«Sono del paese accanto, non credere, non vengo dalla città, in fondo la tua fama vale solo qualche chilometro. Si parla di te sai, dalle mie parti in montagna; abito qua subito sopra la collina, dove il mare non arriva.»
«Sei scesa dai monti solo per trovare me?»
«Non lo so, forse. Per trovare te, e il mare. È così assurdo che tu ci viva e che non possa proprio vederlo… Allora a me non lo chiedi com’è il mare?»
«Ho paura della risposta…»
«Non capisco.»
«Qua tutti dicono che il mare non è un granché: incolore, sporco, rumoroso. A volte ho come l’impressione però che lo dicano solo per farmi un favore, per non ammettere quanto io sia sfortunato a non poterlo vedere, per non compatirmi, forse lo fanno perché qui tutti mi vogliono bene.»
«Ma tu ci sei mai stato là, sulla riva del mare?»
«No.»
«No!?!»
«No. Non ho mai attraversato quel sottopasso.»
«E allora come puoi pretendere di sapere com’è il mare? Sai cosa penso io? Secondo me la gente non ti compatisce. Chi ti dice che il mare fa schifo lo pensa veramente, solo perché non l’ha mai sentito!»
«Sì, certo… ma tu cosa ne sai che vieni dalla montagna?»
«Io infatti non lo so, sto andando a sentirlo, vieni con me?»
Non feci in tempo a rispondere che lei mi stava già trascinando sulla strada, verso il sottopasso. Cominciava intanto a piovere. Goccioline delicate mi inumidivano i capelli, e si fermavano nel punto in cui le nostre mani erano intrecciate.
«Ci siamo, togliti le scarpe!»
«No, non voglio.»
«Muoviti prima che venga giù il diluvio!»
Velocemente, come spinto da una coscienza che non era la mia, mi slacciai le scarpe e abbandonai sulla sabbia il mio bastone.
«Portami tu al mare.» Sentii il suo sorriso. Di nuovo mi prese la mano, senza trascinarmi come prima, ma accompagnandomi, passo dopo passo, facendomi godere di tutte quelle sensazioni sabbiose.
«Non mi avevano mai parlato della puzza!»
«Salsedine, mostri marini, alghe odorose…»
«Ci sono pesci impacchettati?»
«No»
«Di che colore è?»
«Color… mare!»
«Dev’essere un colore stupendo»
«Lo è!»
«Quindi sono sfortunato a non poterlo vedere?»
«Lo sei»
«Grazie.» Sussurrai e poi, eccolo, lo sentii. Tutta l’acqua del mondo si condensò tra le dita dei miei piedi: nuvole, vapore, ghiacciai, pioggia torrenziale e pioggerellina primaverile, lacrime, fluidi corporei, sudore, sorgenti, laghi stagnanti, fiumi gelidi, l’acqua bollente che diventa fuoco, al centro della terra. Lo vidi in quel momento, il mare, e tutto il mondo insieme, e le sue mani intrecciate alle mie sotto la pioggia.