Voglio scrivere una poesia che non parli d’amore.
Che non contenga descrizioni di sogni.
Senza stelle, nuvole e piume.
Senza fiori, campi ed estati.
Senza sole e senza luna.
Un canto pesante, plumbeo.
Un canto vero.
Il canto di chi oggi non si permette i sogni, perché fanno troppo male.
Di chi non può osservare le stelle perché il cielo li ha schiacciati a terra.
Un cielo troppo terso e nuovo per occhi abbagliati dopo troppo buio e doloroso su schiene troppo curve.
Un cielo che usa le nuvole per bellezza, dimenticandosi che danno la vita.
O la tolgono.
Persone dalle ali spezzate, persone senza prospettiva, persone rinchiuse, persone all’angolo, persone arrabbiate.
Disoccupati.
430 posti di lavoro.
430 persone.
430 storie.
430 famiglie.
La chiamavano flessibilità questa storia,
la chiamavano così senza sapere che un uomo troppo flessibile muore
o perché non ha le ossa
o perché gliele hanno spezzate.
L’incubo porta il nome di Caserta, il nome della reggia.
Anche oggi, un anno dopo,
nulla è cambiato, il cielo è sempre azzurro
sono solo gli occhi ad essere un po’ più opachi
sono solo i progetti ad essere un po’ più polverosi nei loro angoli di sogno impossibile,
le intenzioni più elementari
i bisogni più antichi.
I ruoli tornano.
Le classi sociali non sono più lettera morta;
si torna a bere vino sul ricordo degli anni di piombo.
E arriva un’ora, la sera,
quando anche le foglie del tiglio si fermano immobili,
quando il rumore delle sedie scende in strada, ad annunciare la cena,
in cui, finalmente, scende una parentesi di silenzio concorde.
È quando il tempo si apre e si chiude come un respiro,
quieto e latente,
come il sonno dei gatti, statico e vibrante insieme.
È in quest’ora che si sente il dolore scivolare via,
come un paio di scarpe da lavoro indossate troppo a lungo e finalmente tolte,
come sudore appiccicoso lavato da acqua corrente.
Senza questo dolore il piacere dell’acqua si fa irrilevante,
senza fame il migliore dei piatti è insipido.
Abbiamo il diritto alla soddisfazione della fame e della sete,
abbiamo diritto alla fatica,
e al perseguimento di uno scopo,
abbiamo il diritto di affannarci
così come abbiamo diritto alla nostra ora di quiete.
E abbiamo il diritto di sapere che quell’ora esiste, ed è nostra e ce la siamo guadagnata.
È questa la voce che parla,
con decine di voci,
centinaia di occhi,
dappertutto, che rischia di levarsi in un brusio,
un discorso,
un grido,
che rischia di spezzare il respiro del tiglio.
Valentina Barbieri