a cura di Clara Incerpi
Alle volte un tuffo nel passato bagna la tua pelle di novità, o magari di conferme utili. Nel mondo, nell’arte, nella letteratura in particolare ci rendiamo conto di quanto il vecchio spesso sappia di nuovo; nozioni di un tempo risultano inerenti alla vita di oggi, a ciò che turba l’uomo, ai problemi che lo circondano, forse perché sono sempre stati li stessi, hanno cambiato solo forma o colore, plasmati dalle diverse epoche, usanze e tradizioni.
Come consiglio, quello di riprendere ogni tanto in mano vecchie opere ormai catalogate come “compiti per le vacanze”, letture assegnate magari alle scuole superiori se non prima, in periodi della propria vita in cui forse nemmeno ci erano facilmente comprensibili.
Un maestro senza tempo, uno scrittore/filosofo che insegna l’arte della vita è Luigi Pirandello. Egli non si limita a scrivere romanzi, opere teatrali e quant’altro per divertire o occupare il lettore. Egli scrive per cercare di dare un senso all’angoscia esistenziale che caratterizza la vita di ognuno di noi.
I suoi lavori sono incentrati su alcuni temi principali, che tratta con grande classe e maestria: la quotidianità, la vita di tutti i giorni, che fa di lui non un verista, bensì un realista. L’identità, la solitudine di fronte all’incomprensione, le sensazioni più profonde e spaventose dell’essere umano, per arrivare poi alla pazzia, alle maschere dietro alle quali ognuno, per protezione e sopravvivenza, si nasconde. Egli, nel corso della sua vita, si occupa sia di narrativa che di teatro; sceglie quest’ultimo per rappresentare al meglio la dualità che sente tra l’essere e il sembrare.
Tra le opere principali e più famose troviamo l’Enrico IV. Dramma in tre atti scritto nel 1921 che ci racconta la pazzia come voglia di essere, amare, evitare di portare maschere inutili. Un nobile del primo ‘900 si traveste da Enrico IV per prendere parte ad una cavalcata in costume. A ciò prendono parte altri due personaggi fondamentali per l’opera, Matilde Spina, la donna di cui è innamorato il nostro protagonista, e Belcredi, suo rivale in amore.
I due combattono, e nell’essere disarcionato Enrico IV cade e batte la testa a terra. Il trauma lo porterà a credere di essere realmente il personaggio che in realtà sta solo impersonando. Per non turbare la sua persona, i servi e tutti coloro che si occuperanno di lui rispettano la sua pazzia e fingono che ciò in cui crede sia reale, per paura di farlo soffrire troppo facendo il contrario.
Dopo dodici lunghi anni Enrico guarisce e comprende che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per rubargli la sua amata. A quel punto si ha la svolta fondamentale: egli decide di fingersi ancora pazzo ed usa la propria follia come maschera, per sfuggire da quella che è la realtà, troppo dolorosa per essere sopportata. Dopo venti anni dalla caduta Matilde, Belcredi, la figlia, Di Nolli e uno psichiatra vanno a trovare il nostro protagonista. Il dottore, molto interessato al caso, afferma che a suo parere bisognerebbe ricostruire la scena di vent’anni prima per farlo guarire (ovviamente inconsapevole del fatto che Enrico stia già bene). Così la scena viene allestita, lo scontro anche, ma al posto di Matilde mettono la figlia, tale e quale alla madre, di cui il protagonista si era innamorato e lo è tutt’ora. Così d’improvviso sente la necessità di abbracciarla, ma il padre di lei non vuole e si oppone. Enrico così sguaina la spada e trafigge a morte Belcredi. A questo punto, per sfuggire definitivamente dalla realtà, decide di continuare a fingersi pazzo per sempre.
Storia che sottolinea l’importanza che ha per l’uomo l’avere uno scudo per proteggersi dalla realtà, la fragilità dell’anima umana, il suo bisogno di sentirsi amata, compresa, ma soprattutto la soggettività del vissuto, quanto ognuno senta ciò che ha dentro più di qualsiasi rumore esterno al proprio corpo.
Questa e tutte le altre opere di Pirandello meritano una rilettura, magari al posto di qualche nuovo romanzo appena uscito ma che può tranquillamente aspettare tra gli scaffali della libreria. Perché i suoi scritti non accrescono semplicemente il nostro intelletto, bensì la nostra interiorità più profonda.
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