L’essere umano è così fragile.
Siamo tutti così fragili, delicati bicchieri di cristallo nel mezzo di una tempesta.
Non volevo questo per lei; non volevo più vederla debole e indifesa, così assurdamente piccola nella mia mano e così stupidamente dipendente da me. La desideravo combattiva e armoniosa, una forza della natura racchiusa in quei semplici occhi nocciola, irrequieta e al contempo placida, riflessiva.
Volevo trasformarla da preda a predatore.
Le stavo fissando le labbra che, socchiuse, ansimavano. E dal nulla le tirai una sberla, non troppo forte, giusto per vedere la sua reazione; spalancò gli occhi, ora potevo vederci il mondo lì dentro. Poi venne.
Sfioravo delicatamente la sua schiena aspettando, il suo respiro calmo si alternava al mio, cullandomi, finchè la sentii sussurrare: “Pensi sia sbagliato?”. La girai lentamente fino a incastrarmi nel suo sguardo e le dissi che di sbagliato non c’era proprio niente.
Mi alzai presto mentre lei ancora dormiva, feci tostare due fette di pane, una a testa, e accesi la radio; qualche secondo dopo arrivò lei in cucina con la faccia stropicciata dal sonno e dal cuscino, bellissima. La verità è che non avevamo bisogno di troppe parole, non c’erano mai grosse discussioni fra di noi eppure sentivo di conoscerla come nessun altro, sentivo i suoi pensieri come fossero i miei anche se probabilmente come coppia, da fuori, sembravamo monotoni e vuoti ma c’era una lentezza nei gesti, una cura nei dettagli che ci faceva dare la massima attenzione a tutto e rilevanza a niente.
Correva bene, bei polpacci, belle gambe e ottima resistenza. Così le dissi che volevo insegnarle a picchiare, sai com’è, per autodifesa, no? Dovesse succederti qualcosa almeno sai tirare un pugno e poi un po’ di esercizio fisico non fa mai male. Si girò e mi sorrise con un piccolo cenno del capo come risposta.
Guardia alta, pollice mai dentro sennò te lo rompi, braccia chiuse a proteggere lo stomaco e il petto, non mirare alle palle sarebbe sleale, mani serrate davanti al viso come una maschera, lasciando fuori solamente gli occhi, continuo movimento del corpo quasi ipnotizzante e ora, senza portare il braccio indietro, stendilo decisa e veloce come il morso di un serpente.
Tempo tre mesi e sapeva difendersi a meraviglia, tempo otto mesi e era tecnicamente brava, completa, aggraziata, ma mancava la grinta.
Lo individuai, al bancone del bar; il classico pallone gonfiato con due amici che bevevano una birra ridendo fragorosamente. Finchè uno, come mi aspettavo, indicò lei e sorrise, con un angolo della bocca, agli altri due, che le si avvicinarono chiedendole se gradiva bere qualcosa, facendomi scattare in piedi e dire che era mia, levatevi dai coglioni per favore. Il piccoletto scattò, per niente veloce o abile, potevo bloccarlo ma non era il mio scopo, un gancio sulla guancia destra e lei si alzò in piedi infuriata massacrandolo.
Le baciai la nuca e mi sorrise. Disse che, anche se era sbagliato, vedere la propria mano che partiva e sentire il potere distruttivo di cui era capace le piaceva, sentire le ossa del naso rompersi contro le sue nocche e l’idea di essere forte non le dispiacevano affatto, anzi…
Iniziammo a frequentare parecchi bar, mai lo stesso, e ogni sera trovavamo una scusa diversa per fare una rissa con qualcuno. Certo a volte le prendevamo anche noi, ma era il nostro modo di liberarci, capite? Di mandare a fanculo il mondo intero. Perché prendersela con persone innocenti? Non lo so, ma era questo l’affascinante; poter distruggere la vita ad una persona qualsiasi e poi ci univa tantissimo spingendoci perfino a parlare e a ridere continuamente, vedevo nei suoi occhi una luce diversa che la rendeva sensuale e pericolosa allo stesso tempo.
Avevamo appena finito di fare l’amore, lei mi guardò e disse che voleva viaggiare, che mi voleva con lei in giro per il mondo, era stanca di quella città e dei dintorni, voleva nuovi profumi, nuovi colori e nuovi sorrisi, disse che pensava all’India o al Marocco per almeno un paio di mesi. Così, tempo due settimane e era tutto organizzato per la partenza, mai avrei pensato di vederla così felice. Avevamo preso una stanza d’albergo elegante con un fantastico letto a baldacchino, e capii che aveva ragione; i colori erano ovunque, perfino sulla pelle, e gli odori di spezie non ti abbandonavano un secondo. Il suo sorriso non si spegneva mai, la vedevo correre da una bancarella all’altra con dei campanellini come cavigliera, correva perfino nel deserto con quel suono dolce che la rispecchiava perfettamente. E io l’amavo, dio quanto ho amato quella donna.
Poi, all’improvviso, tornammo alle vecchie abitudini, a cercare risse fra la gente. E quando non le trovavamo ci incazzavamo l’uno con l’altra finchè lei una sera mi colpì forte alla tempia, le tirai una sberla e sorrise, le tirai un pugno e sorrise ancora ma volò sul pavimento con un rigagnolo di sangue che le usciva dallo zigomo aperto in due.
Non ci vedevo niente di sbagliato, capite? Avevamo entrambi potere, non importava il fatto che lei era più debole di me o che era donna, la vedevo come mia pari, potete capirmi?
Lei non si incazzò, non disse niente, mi fissò con uno sguardo che poteva uccidermi, si alzò e chiuse la porta.
Non la cercai, non sapevo dove poteva essere. Anche se spesso mi sembrava di sentire il suono di quei campanellini e mi giravo di scatto, cercando una cascata di capelli ricci. Ma niente. Finita la vacanza, la ritrovai in aeroporto sempre sorridente, come se non fosse successo nulla, mi prese la mano e disse che ora le sarebbe piaciuto andare in Irlanda, insieme.
Greta Cavallè
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