Natale. Che palle.
È l’ennesimo anno in cui si celebra il Natale, il Santo Natale, la nascita del Buon Dio, i soldi spesi, i parenti stronzi e le donne non te la danno perché improvvisamente pervase da un certo horror vacui. We wish you a merry Christmas!
Dalla finestra vedo fioccare una neve pigra e sporca, un nevischio privo di spirito natalizio. Tutto è biancastro: le macchine parcheggiate, il tardo pomeriggio che declina in una notte degna dei migliori focolari, le strade deserte, il vento che muggisce contro le mie finestre e mi fa rabbrividire (è possibile che io rabbrividisca perché hanno tagliato il riscaldamento proprio ieri ed indosso cappotto e cappello sul letto, ma forse no, forse è solo l’atmosfera, è l’idea del vento, l’idea a priori del vento stesso, la concezione. Ho usato il termine a priori assolutamente a caso, era per darmi tono, nessuna ragazza leggerà questo diario, quindi non devo fare il finto intellettuale.).Tutto freme in silenzio, si prepara per accogliere questa magia silenziosa, questo quieto rintanarsi in se stessi, esulandosi dalle fatiche del quotidiano.
Che porcata.
Questa sera, per la mia cena di Natale, mangerò la pasta con la conserva di pomodoro. Alla Simply costa 0.89 centesimi, sa di lucido per scarpe, ma costa poco, almeno.
La notte di Natale scrivo perché sono solo.
Tendenzialmente la scrittura è utilizzata come terapia, come sfogo, come eruzione mentale di frustrati cronici: poi arrivano gli scrittori, quei disturbati, che pensano di farci su un mestiere. Allora le paranoie diventano premi Nobel, gli schizoidi assurgono nel grande Olimpo dei Saggi. Ma se deviato ci nasci, deviato ci resti, dico io.
Scrivo perché sono solo, fin qui ci siamo, ma perché sono solo? La notte della viglia, poi.
Sarei dovuto stare con Lyu, la mia amichetta cinese, però poi ha deciso di andare da un’amica a chiacchierare. Sono certo che si ubriacheranno e faranno le porcate assieme. Trovo sia stato molto scortese da parte sua non accendere nemmeno la webcam.
Non chiedo tanto, io, indosso qualsiasi ruolo di perversione mi si chieda.
A parte quella cinese, nemmeno Jenny può, cena dai suoi, Anna è alle Barbados, la stronza, Clarette ha un concerto d’arpa PROPRIO stasera. Che poi, per piacere, ci sono 365 sere all’anno, all’incirca, vuoi dirmi che sei impegnata proprio proprio quando ti chiedo di uscire?
Stronza, Clarette, come stronze tutte le Lucie, le Mary, le Silvie e le Veroniche di questa strana città.
La mia famiglia? Lasciamo perdere, chiudiamo il discorso, stop, 5 minuti di pausa.
Sto scrivendo questo testo perché ho deciso di cambiare: non voglio essere precipitoso, ma devo confessare che non mi piace scrivere (mi sono già espresso sugli scrittori e su quest’arte bella alias masturbazione letteraria). Alla parola scritta preferisco lo sguardo, le ciglia di una donna che sfarfallano su occhi da cerbiatto, il tocco poi, ed il rumore di zip, le lenzuola che frusciano, i suoi gridolini. E il crepitio della sigaretta post coitale, immancabile.
Le parole non servono, ci vuole azione.
Credo si sia capito quanto mi piacciano le donne: non dico di essere bravo, però ci so fare.
La femmina è una creatura semplice, in fin dei conti. Hanno circa una decina di regole base che le accomunano, come un Codice Non Scritto della Gnocca, una cosa del genere.
Ad ogni modo, amo le donne, ma sono in un momento di crisi.
Mi piacciono le artiste.
Solo le artiste, è una tragedia.
Ho consumato venticinque anni precisi della mia vita a correre dietro alle cantanti, alle scrittrici, alle poetesse e musiciste. Pittrici, designers, sarte d’alta moda, registe ed attrici di teatro, ballerine di danza classica e strip tease, mi va bene qualsiasi tipo d’arte, basta che affianco ci sia una bella ragazza dalla vita stretta.
Per questo mi sono iscritto a Beni Culturali, con tanto di specialistica.
Mi trovo quindi nel mio piccolo monolocale in Via Padova, Milano, a parlare ad un pubblico assente di questo mia pregnante ed emblematica monomania.
Ho preso una decisione, un sentore di rivoluzione e di resistenza al me stesso troppo forte per essere ignorato, come l’odore dei cavoli bolliti.
Ma se davvero la scrittura è uno sfogo, perché non sfogarmi? Le artiste sono davvero le peggiori donne esistenti, dopo le lesbiche (quelle belle) che non ti fanno assistere (Lyu!).
Le cantanti sono delle prime donne: non stai facendo l’amore con loro per godere, lo stai facendo per autocompiacerle, e i tuoi fremiti e ansiti sono funzionali all’accrescimento del loro ego. Scopare, quello lo fanno bene, indipendentemente dalle loro capacità canore, ma sono plastiche, finte, posate. Una mi chiese di masturbarmi mentre lei cantava. Sono favorevole al sesso complicato, ma non si tolse nemmeno i vestiti.
Pensai a Michelle Pfeiffer.
A questa categoria appartengono anche le attrici di cinema e teatro, ci tengo a precisare.
Le scrittrici sono crocerossine pedanti ed astruse: tendenzialmente timide e spaventate dal mondo, rotolano verso il sadomasochismo intellettuale. L’anatema non è il rapporto in sé, ma il dopo. Sono pazze! Una mi chiamò da Parigi perché sentì nascerle dentro un improvviso bisogno di spiegare, di parlare di noi, di dire, di fare metafore e similitudini. Quasi m’indebitai con il mio gestore telefonico, e lei mi scaricò.
Quelle che scrivono parlano tanto, anche durante il sesso.
N.B: comprarsi una gag ball il prima possibile.
Le pittrici e le fumettiste vogliono ritrarti: parrebbe naturale, ma credo sia uno strano metodo di corteggiamento, una specie di sublimazione artistica dell’atto sessuale.
Non hanno capito che poi non basta regalarmi il disegno per calmare i bollori. Le designers sono frigide e basta.
Ne potrei raccontare ancora tantissime, stillare decaloghi, lamentarmi, scrivere un piccolo vademecum di conquiste, caro Casanova, esimio Siffredi, non lo farò, per il bene della vostra fama.
Voglio solo mettere per iscritto la decisione che ho preso: alla prima lezione di latino base la professoressa, una biondina dinoccolata e nervosa, sentenziò: “verba volant, scripta manent!”. Smisi di frequentare il giorno dopo e comprai un fantastico libretto dal titolo “Siamo tutti latinisti: detti latini nel linguaggio moderno”, alle donne il latino fa sesso.
Oggi, il 24 dicembre dell’anno del Signore 1990, decido di astenermi per sempre dal frequentare artiste.
Voglio trovarmi una segretaria, un sano cifone che studi ragioneria o lettere antiche, sposarmi e sistemarmi. Sarà difficile: di questi tempi tutte le donne vogliono sfuggire dalla loro mediocrità rifugiandosi nell’Arte, ma sono un buon segugio.
Per la prima volta nella mia vita ho scelto di scegliere: tra una breve esistenza, piena di ottimo sesso dalla forma diversa ma dal gusto identico, scelgo una vita lunga, monocromatica e monotematica, con una donna sola, un cervello solo. Un paio di tette per almeno altri sessant’anni, resisterò?
Decido di resistermi: se davvero l’uomo è animale razionale, della mia razionalità faccio vessillo.
Basta artiste, voglio donne, non semi adolescenti.
24 dicembre 2012
Natale.
Dovrebbe essere un giorno felice: l’attesa, il cenone, il latte per Babbo Natale e le carote alle renne.
Ora invece non so nemmeno perché io sia qui a digitare.
Non ho voglia di scrivere tanto, non mi è mai piaciuto: ho sempre preferito il dialogo alla scrittura.
Molto di ciò che è scritto, a parer mio, viene eternato senza una motivazione vera e propria. Si è perso il valore di eternità, bisognerebbe ritrovare il gusto di perdere qualcosa, lasciarlo in quell’interstizio del tempo che sta tra il dimenticato e l’accennato.
L’idea di eternità mi annoia molto.
Sto divagando: la scrittura è divagazione, alla fin fine.
Sono sola in casa, ma perché? La sera della vigilia è sempre una noia mortale: i negozi se ne stanno tutti chiusi, la gente è ancora più frettolosa dei giorni lavorativi, i locali sono strapieni, e le persone mi hanno sempre fatto paura.
Per esempio quando si entra in un ristorante e non si trova un tavolo libero.
Odio lo sguardo del cameriere, tra il servile e l’irrisorio, che t’informa di un’attesa di mezz’oretta buona, l’imbarazzo dei futuri commensali, l’inevitabile cena dal kebabbaro sotto casa.
Anche con i migliori propositi, 4 euro e 50 centesimi panino, bibita e patatine fanno gola. Sempre meglio della conserva della Simply.
Infatti sto scrivendo con un bel panino davanti al naso: il mio stomaco gorgoglia, ho tanta fame.
Se lo sapesse mia madre, che stasera mi ritroverò a pregare il dio Gaviscon, al posto di Gesù Bambino.
Penso a lui, a Severino, tra l’altro che nome di merda. Quando si è innamorati, non si fa caso al nome, al cognome, al fatto che il concupito o la concupita si soffi il naso e poi guardi nel fazzoletto la sua opera con un sorrisetto di soddisfazione. Quando si ama, quel muco è santissima reliquia, ed il dubbio se avvisare di quella foglia d’insalata rimasta incastrata tra i denti del bello o della bella diventa come una fucilazione in piazza.
Ho letto quello che ha scritto, e non mi stupisco di essere a casa da sola, povera Solange (ok. Ammetto che il mio nome non sia uno dei più eleganti, però almeno fa esotico).
Non mi stupisco nemmeno che mi abbia lasciato: non c’è problema, 3 anni di matrimonio non sono poi questo casino. Essere divorziati è charmant, fa moda. Forse ora gli uomini mi guarderanno con più interesse.
Sento il ticchettare dell’orologio spandersi a macchia d’olio per tutta la casa: ho deciso di tenere acceso solo un piccolo lume, sullo scrittorio.
Voglio che praticamente tutta la mia casa sia buia, per rappresentare quella sottile minoranza etnica di chi, il Natale, non lo festeggia.
Voglio anche che Severino magari, passando sotto casa, veda le luci spente e pensi che io sia a ballare in una qualche discoteca tutta pettinata.
Sono ancora giovane, esteriormente (25 anni e sentirsene 80), se mettessi un bel paio di tacchi 14 e cazzuolate di trucco, potrei ancora fare una bella figura. Sono però consapevole di essere una persona goffa e noiosa, e Severino mi ha scelto per questo.
Mi viene da pensare al mio ideale d’uomo, quello di quando iniziai l’università: voglio un’artista, dicevo, lo voglio bello, con i capelli lunghetti e gli occhi caldi, insondabili. Voglio che mi porti a vedere il teatro sperimentale, dove nessuno capirà un bel niente, ma si faranno discorsi intellettuali per farsi belli. Voglio vedere film francesi d’essai, mettere i jeans al posto delle mie gonne longuette e bere birra seduta sul marciapiede, all’albeggiare.
Non sono mai stata povera, devo dirlo, ma avrei voluto esserlo solo per vivere da studentessa.Anche io avrei voluto poter rifiutare una serata perché “5 euro non li ho”, andare ai centri sociali, avere quell’aria trasandata ma fascinosa che hanno le ragazze esteticamente comuniste.
Ecco, Severino era così.
Per questo me lo sono sposata, subito dopo essermi laureata di Scienze della Comunicazione con 110 e lode.
Ma perché sposarsi, poi? Perché tutto questo bisogno di mettersi la fede al dito? Che diciamocelo, è un’ansia in più: una volta Severino fece cadere la fede nel caffè e la bevve.
Non voglio ricordare la lavanda gastrica, faceva troppo ridere.
A ripensarci, non sono preoccupata: spero che almeno non dia il nostro anello nuziale alla prossima attrice che incontrerà, ma che la getti nel Po! Sarà sicuramente poetico.
Leggo troppa Jane Austen.
Mi ricordo quando lo vidi, alla prima lezione di latino base: se ne stava lì, il mio Severino, menfreghista ed un po’ sporco (ma quello sporco che piace, che fa tanto uomo che non deve chiedere mai, nemmeno una doccia.), a mordicchiare il gommino della matita.
Quando, dopo 5 minuti scarsi di lezione, s’alzò, pensai che non avrei mai amato un uomo così tanto come lui.
Forse perché un uomo che sa il latino fa sesso, sesso acculturato.
Prima di lui ho avuto altri uomini, ma è stato un po’ un disastro: quelli che frequentano la Bocconi sono così up to date che mi lasciano esterefatta, citano il latino solo quando devono parlare del motto dell’università americana dove andranno a fare il master e sono troppo puliti, troppo profumati.
Uno di loro mi regalò una boccetta di olio di semi di lino per i capelli, pensavo fosse di sua madre.
Invece era sua.
E poi informatici di ogni genere e tipo, scienziati, scienziatucoli e medici.
I medici iniettano un particolare disagio nella mente di una donna con velleità se non artistiche almeno sentimentali: parlo per me, certo, ma ogni volta che baciavo uno di questi, non potevo fare a meno di pensare a ciò che lui stesse valutando, secchezza del cavo orale, temperatura corporea, graffi graffietti cicatrici sangue ormoni e via discorrendo.
Se tra me e Severino c’è stata una cosa positiva, quello è stato il sesso.
Ho capito essere un motore esistenziale di ogni atto, ogni pensiero, ogni aspirazione.
Tutta la Troade è bruciata tra le fiamme Achee a causa di una figa, non certo per delle dissertazioni filologiche o dei misunderstandings tra aruspici.
Ed ho capito anche quanto sciocco sia resistere ai propri impulsi: vuoi andare contro un sistema, fallo, forse verrai schiacciato, forse vincerai.
Hai fame? Mangia. Hai sete? Bevi. Hai voglia? fai sesso, ma proteggiti che poi ti becchi le malattie brutte.
Resistere, per quanto riguarda il proprio animo, non serve. Educarsi non è come educare: viviamo in tempi di concessione e licenziosità assoluta (non che sia un male, ma questo è), ed è assurdo pensare si possa domare un carattere in un certo senso naturale. Riaffiorerà, dopo anni, ineluttabilmente.
È dunque meglio lasciarsi andare al flusso della corrente umana, un πάντα ῥεῖ dolceamaro, su misura per due.
Con buona pace dei rivoluzionari, sia di destra che di sinistra.
Con buona pace mia.
Buon Natale.
Eleonora Casale
Un commento su “DUETTO D’ASSENZA”
Bellissima storia,amaramente attuale !