Per quanto si possano adorare la propria famiglia, i propri amici, conoscenti, colleghi, compagni di università, capita a tutti ogni tanto di sentire l’esigenza di un po’ di solitudine e voglia di stare per i fatti propri. Non ha niente a che fare con l’essere più o meno socievoli, chiacchieroni o amanti delle public relation; è una cosa trasversale, eppure non tutti sono pronti ad ammettere che se ne andrebbero molto volentieri fuori da soli, piuttosto che ostinarsi a cercare accompagnatori. Non è che siano tutti pazzi, semplicemente, nella maggior parte dei casi, ci si vergogna a farsi vedere in solitaria perché non è “socialmente accettato”, come se fosse inconcepibile che qualcuno sia da solo per scelta.
Si è portati a pensare che le persone che fanno cose da sole siano acide, asociali, senza amici. Sono da sole perché nessuno vuole stare con loro.
Il signore che sorseggia un caffè seduto al tavolino di un bar del centro mentre legge il giornale o la ragazza che legge un libro sulla panchina nel parco, anche se potrebbero banalmente essere in attesa di qualcuno o stanno facendo fruttare un ritaglio di tempo, vengono guardati con compassione. Figuriamoci i casi in cui la condizione bymyself non lascia spazio a interpretazioni: i solitari al cinema, quelli che mangiano da soli al ristornate, i soggetti che camminano senza accompagnatori per i corridoi di una mostra o, addirittura, caso super estremo, quelli che decidono di partire in solitaria. Per questi proprio non c’è scampo, sono sicuramente dei poveretti forever-alone. Si attirano un misto tra compassione, presa in giro e incomprensione, che si traduce nelle facce allucinate dei loro conoscenti, ogni volta che, dopo aver raccontato ci essere stati a vedere il tal bellissimo film, alla domanda “ah, con chi eri?”, rispondono che non erano con nessuno, volevano goderselo da soli, negli occhi sbarrati dei collegi quando si annuncia che il week end per cui si ha chiesto le ferie lo si passerà in un B&B in collina in compagnia di sé stessi, o nella pacca sulla spalla dell’ amico quando, durante un aperitivo, gli si racconta che la sera prima si è andati a sentire una conferenza e poi a bersi una birra, senza essere con nessuno.
Sicuramente, tra tutte le cose, quella che fa più scalpore è la vacanza. Emblema universale della tristezza: il viaggiare non accompagnati. Come se fosse la punta dell’iceberg: se si fa in solitaria, questo vuol proprio dire che non si ha nessuno. Non a caso, il film con Margherita Buy, in cui l’attrice interpreta il prototipo di donna indipendente che sceglie di non avere vincoli di socialità per seguire i suoi interessi e le sue passioni (nonché il suo lavoro) in assoluta libertà, s’intitola “viaggio sola”.
Più un passatempo, un’attività, un’esperienza sono rilevanti, più cresce l’esigenza sociale di renderle condivise.
La cosa curiosa è che questa sorta di pregiudizio convive con al consapevolezza del fatto che “stare bene con sé stessi è il primo requisito per essere felici”. Ecco che allora vengono venerate le imprese di chi si cimenta in esperienze di isolamento formativo, di chi si srotola dalla sua ragnatela di vincoli sociali per ricomporre tutti i pezzi di sé che aveva vincolato in rapporti di circostanza. Allora ci viene in mente Liz, il personaggio di Julia Roberts in “mangia, prega, ama”, che pianta in asso tutta la vita che si era costruita per ricominciare da capo, partendo dalla cosa che più di tutte aveva trascurato: sé stessa.
In fondo è una verità riconosciuta quella per cui la capacità di costruire un rapporto con sé stessi sta alla base, in primis di un’esistenza serena, ma anche semplicemente del buon funzionamento e della genuinità dei rapporti con gli altri. Sarebbe allora il caso di farla finita di guardare i solitari come un fenomeno da compatire o da esaltare e di accettare che non c’è nulla di inumano nel richiedere un tavolo per uno quando si entra in un ristorante.