La Costituzione italiana, all’articolo 19, riconosce la libertà di religione a tutti.
Può anche questa libertà essere negata a chi si ritrova privato della libertà di circolazione a causa di un reato, e recluso in carcere?
Le fedi sono diverse fra loro, e richiedono il rispetto di regole diverse, e l’assistenza religiosa da parte di differenti ministri di culto.
Essendo l’Italia un paese a maggioranza cattolica, in ogni stabilimento carcerario opera stabilmente almeno un cappellano rappresentante di questo culto, il quale, retribuito dallo Stato con circa 1000 euro mensili e dotato di un ufficio e di una cappella all’interno dell’istituto, ha un obbligo minimo di presenza di tre ore giornaliere, secondo una legge risalente al 1975.
In un passato neanche troppo lontano (fino al 1968) i detenuti erano obbligati ad assistere alle funzioni religiose domenicali, quasi si considerasse la religione come una parte irrinunciabile del percorso riabilitativo, anche per non credenti o appartenenti ad altri culti.
I non cattolici hanno dovuto attendere il 1985 per ottenere, almeno su carta, la possibilità di esercitare la propria religione anche con l’ausilio di ministri del proprio culto. Tuttavia questa possibilità è purtroppo ancora molto teorica: fra i carcerati c’è una percentuale non indifferente di musulmani, fra i quali molti pregano cinque volte al giorno inginocchiandosi verso Oriente.
Per questa pratica in poche carceri, come quello di Pisa, vengono forniti tappetini ai detenuti. L’assistenza religiosa acattolica è purtroppo ancora presente in maniera incostante: alcuni cappellani lasciano a disposizione di rappresentanti di altre religioni i loro uffici, ma non c’è purtroppo alcuna uniformità fra le diverse carceri, nonostante normative stabilite anche a livello europeo.
In Inghilterra, invece, sin dagli anni Novanta, si è istituzionalizzato un sistema organizzato di cappellanato interreligioso in affiancamento alla maggiornza anglicana.
A cura di Sara Ottolenghi