di Sharp
Lei era una scriptrix, ovvero una scrittrice. Era indignata dal fatto che il nomina agentis, ovvero il nome che designa chi compie l’azione in Latino esistesse solo al maschile, appunto scriptor. Così aveva deciso di coniare il neologismo di una lingua morta: scriptrix, appunto.
Come nasce uno scrittore? Si è scrittori dalla nascita o lo si diventa? Forse l’uno e l’altro. Margherita amava dire che chiunque scrive, chiunque tracci dei segni con un significato, è uno scrittore, perché, di fatto, scrive.
Era nato tutto come un gioco, Margherita amava giocare e pasticciare, pasticciare con in pennarelli a punta grossa sull’albore bianco della pagina intonsa, della pagina vergine come una vergine che non conosce uomo. Era nato tutto come un gioco e la prima cosa che aveva imparato a scrivere, anzi a disegnare, tracciando sgorbietti colorati sul foglio, era stato il suo diminutivo – Maggy; l’insegnante aveva avuto compassione e le aveva risparmiato il nome intero. Fu proprio lei, alla scuola materna, ad insegnarle a tracciare le prime linee, il primo significante con un significato, la prima parola, Maggy, la disegnatrice di parole.
Margherita nasceva prima come scrittrice che come menestrella, la sua oralità fu stroncata e censurata fin sul nascere dal padre che, per ogni affermazione della piccola, pretendeva citazioni a piè di pagina dalla Oxford Press o dall’Economist (e appena seppe leggere in Inglese si attrezzò). Ma nessuno poteva censurare le sue quattro parole sull’albore bianco di una pagina.
Era la migliore nelle prime composizioni alla scuola primaria, ma soprattutto era creativa! Scriveva poesie o piuttosto filastrocche in rima baciata per papà, mamma, Clelia che non le stava simpatica, per il merlo indiano del pescivendolo e per il pesce rosso di Marta. Iniziò anche la sceneggiatura di una pièce teatrale per bimbi che parlava di fate, ma lei la chiamava con un nome molto meno pomposo, era ‘il suo copione’.
E venne la prima raccolta di racconti, alcuni scritti a pennarello s’un quaderno dalla copertina colorata che raffigurava delle caramelle. Racconti perduti insieme al quaderno.
La prima svolta della sua carriera di scriptrix avvenne nel giugno 1999: il primo trauma cui seguì il primo diario. Margherita decise che non voleva crescere, aveva 12 anni e mezzo: e per non crescere avrebbe smesso di mangiare! Ma non poteva campare per aria… così decise di campare di parole. Parole di odio e di amore, rosse di passione e nere di dolore, quelle parole che la tenevano attaccata alla vita, anche quando i denti, indeboliti, cominciarono a scheggiarsi. La prima pagina del diario era scritta in inglese: doppio filtro, quello della scrittura e quello della lingua, solidi filtri per le sue emozioni.
Miss Benny gave me this notebook as a present for my birthday party, with a little wallet and a silver snail.
Non scrisse molte poesie sue, né sfoghi personali, la malattia aveva ucciso anche la parola oltre che l’appetito per la vita. Copiava soprattutto poesie di altri, tra le tante Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale di Eugenio Montale. La seconda strofa toccava più di tutto il suo cuore frantumato di scrittrice muta.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Così Margherita sognava, sognava un amore così, dodicenne, un amore cui dare la mano nei momenti bui, un amore che l’accompagnasse e cui affidarsi ciecamente, un amore che la proteggesse dal male che la vita ci offre.
E invece si trovava a correre in salita afflitta dal peso di una madre malata, un padre assente e presente solo per esigere da lei l’eccellenza, un fratello inesistente e un’orda di compagni di classe di cui prendersi cura o di cui schivare l’invidia. Correva in salita Maggy, e la sua gara era quella campestre, ancora più faticosa perché s’un cammino sterrato, ancora più faticosa perché corsa a stomaco vuoto.
Il tappo emotivo che si portava nel cuore e nella penna durò diversi anni, dai 12 ai 23 più o meno, con qualche apertura verso i 19, cose da poco. Era lei la prima a censurarsi e a non amarsi abbastanza per mettersi lì e vuotare il sacco, psicanalizzarsi, giacché la scrittura, come per Svevo, anche per lei era psicanalisi.
Quel tappo emotivo le rimase in gola finché non conobbe Nikolai, trilingue tedesco, inglese e spagnolo e per lui iniziò a scrivere in inlese, emozioni filtrate.
Scrisse dell’affetto grande e dell’amore innocente che li legava, degli occhi straripanti d’emozione di lui, emozioni che bruciavano come un adolescente brucia, lui aveva solo 20 anni. Scrisse della sua frustrazione e del suo desidero di essere la donna prima per lui, scrisse
I want to feel your hands on my hips
I want to caress your fair skin
ancora una volta saltava fuori quel desiderio di pienezza e protezione che nessuno riusciva a darle, nulla riusciva a completarla.
Ma solo l’amore non appagato per Margherita era fonte d’ispirazione, l’altro amore, quello completo lo conobbe mai, forse sarebbe equivalso al suo silenzio, giacché l’amore non ha parole ed in amore le parole sono solo fonte di malintesi, come tra principi e volpi.
Abbatté quella barriera quando lo vide, lui, l’uomo che la salvò e ne tirò fuori l’artista che lei era già in potenza da molto tempo, la disegnatrice di parole risalente ai 5 anni. E vedutolo si amò, amò la sua immagine riflessa negli occhi di lui che era scrittore e ci vide se stessa, ma questo è un altro racconto e verrà disegnato in seguito.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Crediti immagini:
- pixaby (link)