Di Martina Difilo
Lascio che i miei pensieri vengano dondolati da movimento del tram. Questo modello così “retrò” mi affascina: sembra di fare un viaggio nel tempo, di rivivere una Milano che in realtà non ho mai visto. Quando sono su questo tram ho la sensazione che non appena saliti i gradini debba necessariamente trasformarsi il paesaggio esterno: i palazzi si abbassano, le macchine sono più antiche, i signori sono tutti in abito e in cappello e le signore rigorosamente in gonna sotto il ginocchio e col capo coperto da un foulard. Come se la Milano fuori dal tram si trasformasse in una cartolina in bianco e nero, un po’ sbiadita.
Il mio viaggio nel tempo è interrotto da una brusca frenata, che fa scontrare il passeggino di fronte a me contro il mio piede: un bambino un po’ stupito mi rivolge un sorriso, mentre lo spingo verso la sua mamma, che ringrazia e si scusa con un solo gesto, senza proferire parola, senza alzare lo sguardo, dandomi l’occasione di notarlo: il suo è uno sguardo vuoto. Non è triste, non è felice, non è arrabbiato: è semplicemente privo di qualsiasi connotazione emozionale. Anche quando il suo bambino le parla, la donna non alza lo sguardo; fa dei gesti, risponde, ma i suo sguardo rimane sempre inespressivo.
La osservo ed è evidente che sia consapevole del fatto che io lo stia facendo, ma non ne è infastidita: ogni tanto incrocia il suo sguardo con il mio, ma è come se non mi vedesse. È come se né io, né il bambino, né il tram, né il resto della città esistessimo.
Quello sguardo vuoto scruta l’intorno, vede, ma non guarda. Cos’avrà svuotato quello sguardo? O sarà sempre stato così?
Osservando la donna mi è inevitabile notare il suo abbigliamento, i suoi sandali rotti, i suoi capelli spettinati e un po’ sporchi. Forse non è tanto facile sorridere, nella sua vita. Ma sarà stata solo la povertà a svuotare quello sguardo o c’è stato qualcosa di più doloroso?
Guardo il suo bambino, così incosciente di quella tristezza e di tutte le tristezze del mondo e mi chiedo se quello sguardo vuoto non sia per lui. Così piccolo ed indifeso, ma probabilmente già segnato agli occhi della sua mamma.
Non è difficile capire a quale cultura appartenga questa donna. Quello che sorge spontaneo chiedermi è se quello sguardo non sia dovuto al fatto di non aver mai avuto scelta: e se lei non volesse vivere come tutti gli appartenenti alla sua comunità? Se quello sguardo fosse dovuto ad un desiderio di una vita diversa, per sé e per il suo bambino?
È facile dare per scontato che le persone che appartengono allo stesso “gruppo etnico” vivano tutte allo stesso modo; ci si chiede mai se questo vada bene per tutti? Se tutti ne siano felici?
Lo sguardo apatico di questa donna mi spinge quasi ad alzarmi, sedermi di fianco a lei, chiederle quale sia la sua storia e se voglia un abbraccio. Mi sembra abbia davvero bisogno di un gesto d’affetto. Ma rimango seduta al mio posto, cercando di osservarla un po’ meno, di lasciarla tornare alla sua tristezza, senza il disturbo dei miei occhi curiosi.
E passo il mio ultimo tratto di viaggio condiviso con questa sconosciuta tirando un sospiro di sollievo, per aver avuto la possibilità di scegliere chi volevo essere e come volevo vivere la mia vita.