“La fede comincia là dove la ragione finisce.” Così scriveva il filosofo danese pre-esistenzialista Soren Kierkegaard.
La religione, infatti, per lui era come un salto irrazionale, un salto nel buio, nell’ignoto, in cui o vinci tutto trovando un Dio, o perdi tutto non trovando nulla, il vuoto e l’assenza.
La scelta della fede è una scelta che va anche contro l’eros della società, che si allontana dall’etica, in cui l’uomo è solo nel rapporto con Dio, come mostra l’esempio riportato dallo stesso Kierkegaard in Timore e Tremore” del 1843, dove ci mostra la differenza tra Abramo e Agamennone.
L’ultimo è un eroe tragico, per quanto le sue scelte siano appunto tragiche vengono comunque condivise e accettate dall’eros della comunità, e non è mai solo nelle sue scelte, mentre Abramo, nella sua scelta, ovvero uccidere o meno suo figlio solo perché glielo ordina Dio, è solo, è una scelta che si allontana dalla morale condivisa dall’intera comunità, è una scelta in cui o vince l’incontro con un Dio che si nasconde, di cui non conosce il volto, oppure perde tutto, perde suo figlio.
Questo concetto della filosofia di Kierkegaard forse troppo spesso è stato utilizzato per giustificare scelte in cui la religione viene utilizzata come mezzo di violenza per uccidere adepti di altre religioni, per imporre la propria religione o per fini economici e politici.
Fin dai primi anni in cui studiamo storia, sentiamo in continuazione ridondare la definizione “persecuzione religiosa”, quel fenomeno per il quale si aliena, si esclude, si stermina una parte della popolazione solo perché professa una fede diversa da quella dei dominatori.
Il faraone Akhenaton, l’impero romano, il Jihad islamico, le crociate, il contrasto delle eresie cristiane, l’inquisizione, la repressione in Giappone, la caccia alle streghe e le guerre di religione legate alla riforma protestante sono tutti avvenimenti o periodi storici che hanno un denominatore comune: la persecuzione religiosa.
Quanto spesso infatti la religione è utilizzata come mezzo per giustificare la violenza? Forse troppo spesso, sapendo che la fede dovrebbe essere tutto meno che violenta, il bene e il male sono dunque le due facce della stessa medaglia: da una parte troviamo la continua necessità di lodare un Dio, di pregare, di seguire dei dogmi religiosi, mentre dall’altra abbiamo la brutalità della violenza utilizzata per rendere tutti schiavi di una stessa fede, anche se non condivisa.
Purtroppo la persecuzione religiosa non è solo un fatto che riguarda l’antichità, la religione anche oggi è l’oppio dei popoli, addormenta le coscienze, e molto spesso induce l’uomo a compiere atti violenti nonostante ci troviamo negli anni 2000.
Oggi, infatti, in quasi il 90% dei paesi, tra il 2000 e il 2007, sono stati documentati atti di violenza fisica o di deportazione dovuti all’assenza di libertà religiosa, ma di questa elevata percentuale, se ne sente parlare raramente dai media, in quanto focalizzano l’attenzione su casi che fanno maggiore scalpore come la Cina, il Sudan e l’Afghanistan.
Troviamo situazioni in Medio Oriente, in Africa Settentrionale e in Asia Meridionale, dove ormai la violenza religiosa è la norma.
L’evoluzione, lo sviluppo tecnologico, il futuro fatto di libertà e lontano dalla violenza che tanto desideravano le generazioni passate, si rivela in realtà come lo stesso sistema ricco di violenze e di abusi anche sfruttando la cosa che dovrebbe essere più lontana dalla violenza: la religione.
Photo by Hjorth Danie