Quando avviene il ritorno definitivo dal conflitto? Quando l’uomo scappa dalla guerra, dal proprio paese lacerato dagli scontri, o quando riesce ad eludere, elidere l’inseparabile e terribile memoria che porta dentro? Dheepan di Jacques Audiard aggiunge a queste domande una più estesa: ha un termine il campo di battaglia?
Il protagonista della pellicola è un ex-terrorista delle Tigri Tamil. Un viso abituato alla brutalità, perpetrata e subita, si dipinge sullo schermo sin dalle prime inquadrature. La guerra ha bruciato la sua terra, lo Sri Lanka che per oltre vent’anni ha sostenuto il peso di un cruento conflitto civile. Il fuoco delle armi che ha distrutto migliaia di vite diviene fiamma purificatrice. È la fiamma del mortifero falò in cui il protagonista brucia la sua veste da guerrigliero. Il passato deve essere lasciato alla terra, imbevuta di sangue e lacrime. Rimane la speranza di cominciare una nuova vita (sottotitolo del film).
Si procura una personalità fittizia: ottiene nome e documenti di un uomo morto, un certo Dheepan. Si procura una famiglia fittizia, interpretata da una donna e una bambina che si aggregano a lui. Non lo conoscono. Indossano le maschere di moglie e figlia, impersonando la defunta famiglia del defunto Dheepan.
La recita diviene un obbligo, il film un gioco di negazioni e menzogne. La non-famiglia del non-Dheepan può partire in cerca della panacea.
Ha così inizio la finzione, un velo disperato che cala sulle armi imbracciate, sui cadaveri dei cari e dei compatrioti. Tanti durante la guerra fuggirono dallo Sri Lanka, formando un flusso che nella sua forma trascende la storia: è il flusso di chi ha affrontato le guerre di ieri e di oggi, le guerre dell’uomo e nell’uomo. Una fuga che si ripete in una infinita e tragica pantomima. Il silenzio è del mondo che guarda e non reagisce.
La fuga, tuttavia, non si arresta una volta giunti in Europa. Più precisamente, in Francia. Dheepan, costretto ad assumere le vesti umilianti del tipico venditore di strada, si trova ora a dover fuggire dalla polizia in quanto immigrato illegale. L’occidente non sembra aver portato il sollievo sperato. La storia di chi è fuggito non ha importanza, nascosta dietro le paure insensate e i pregiudizi dei più fortunati. Bisogna ancora correre.
Si trasferiscono in un comune tra i sobborghi parigini, Le Pré-Saint-Gervais, accorciato in Le Pré, il prato. Qui, l’azione si svolge quasi interamente nel complesso abitativo in cui vivono. Dheepan lavora come guardiano ad uno dei condomini, la moglie accompagna la piccola a scuola e fa la badante per un uomo disabile di un altro lotto. Attorno a loro si dipinge, man mano che il film procede nella mostra della loro finzione, una periferia dominata dal crimine, sudicia e pericolosa, abbandonata a sé stessa. È questo il loro tanto agognato idillio?
La loro nuova vita si dimostra un’illusione. Sono emarginati, in primis a causa della lingua. Lei non parla il francese, lui conosce a malapena una manciata di termini. Le difficoltà si susseguono. La quotidianità artificiale viene destabilizzata di continuo dalla guerra tra le gang che infestano il quartiere. Non è simile, ripete Dheepan alla moglie, terrorizzata dalla violenza che continua ad inseguirli.
È così che i visi assumono una particolare importanza, in quanto simulacri viventi del dolore accumulato e sopportato. A sottolinearlo non solo le tecniche di ripresa, ma anche i loro comportamenti. Si cercano con sguardi e gesti, nel tentativo di dare un fondo di realtà alla bugia che stanno vivendo.
Come se non bastasse, la guerra passata torna nelle sembianze di un delirante colonnello delle Tigri. Vuole incontrare Dheepan. Gli dice che devono comprare delle armi da inviare ai compagni rimasti a combattere. La guerra è finita, risponde disilluso Dheepan. Ciò che intende è che è finita per lui, quel passato deve scomparire. Ma la guerra prosegue, nello Sri Lanka come dentro Dheepan.
Il film esplora il rapporto tra le persone e i propri bisogni, quando questi bisogni devono essere riacquisiti, riconquistati in seguito al trauma della guerra. Le storie di emarginati, gente che vive ai bordi della società, sono un tema favorito di Audiard, che riesce a rendere con precisione i loro drammi, le afflizioni di chi ha perso ogni cosa e tenta di ricostruirsi.
Negazioni e finzioni nella pellicola giungono ad un sospirato termine, nella quasi onirica sequenza conclusiva, ma non si può dire lo stesso della realtà che viviamo. Non è solo chi si trova in situazioni borderline o criminali a dover utilizzare sotterfugi e falsità per cavarsela. Lo facciamo tutti, di continuo e spesso senza accorgercene, ingannandoci magari di essere nel giusto. Ignoriamo le sofferenze altrui per tutelare un benessere che fingiamo di avere e volere, pensando di meritare quel che ad altri è stato strappato con un proiettile o neanche mai concesso.