La cucciola era proprio feroce, era cresciuta in cattività, allo zoo di Via Palestro, quando ancora ce n’era uno. Aveva atteggiamenti da adulto e, più che giocherellare, si buttava aggressiva contro le sbarre della gabbia a ogni passante che restasse a fissarla inebetito. Non le piacevano gli ebeti, soprattutto se stavano dalla parte sbagliata delle sbarre. Ma chi la rimirasse da lontano avrebbe potuto vedere degli occhioni azzurro chiaro un poco accecati e languidi. Le tigri bianche soffrono di una malattia chiamata leucismo che indebolisce la vista e le rende in generale più deboli, sono una piccolissima percentuale delle tigri del Bengala, le più feroci.
Ma le piacevano i mocciosi come lei, quei piccoli esemplari di uomo ma più lenti e goffi, più dolci, dolci come lei. Avrebbe mangiato le mamme impellicciate con i loro nasini all’insù, le borse firmate e quegli strani scarponcini che sembravano essere così popolari, una specie di zeppa e una specie di ‘h’ o ‘n’ sul lato esterno. Chissà, dovevano essere molto comodi o molto economici. In ogni caso, si sarebbe mangiata anche gli scarponcini. Ma non i mocciosi! E soprattutto la sua preferita, veniva spesso per mano al suo papà. Anche la cucciola di uomo, aveva come la cucciola di tigre grandi occhi azzurri, la bimba aveva capelli castano scuro, all’incirca tre anni. E una fiducia sconfinata in quella stretta paterna. La bimba guardava alternativamente la tigre e il papà, come per chiedergli benevola la sua protezione. E quel papà, forse era l’unico essere umano che l’altra cucciola, quella di tigre avrebbe lasciato avvicinare alle sbarre. Aveva un’aura buona. Era un bell’uomo sulla quarantina, inspiegabilmente riccio e biondo e aveva gli stessi occhi della bimba. C’era tanta grazia nelle sue movenze, tanta delicatezza, tanto amore nelle sue mani di giovane padre che tenevano quelle della bimba, erano mani piccole, non adatte a suonare il pianoforte, adatte piuttosto ad accarezzare delicati i capelli della bimba, a inanellarsi tra quelle ciocche perfettamente lisce. E perché no? Magari anche adatte a fare una carezza alla cucciola di tigre, lì, in mezzo agli occhi, li avrebbe chiusi.
Ma un bel giorno, un ragazzino che poi divenne famoso per altre e più grandi prodezze, uno dei mocciosi che alla tigre piacevano tanto, scassinò l’entrata della gabbia e fuggì di corsa, era con altri due mocciosi.
Lesta la cucciola bianca sparì dalla circolazione e non si fece più trovare.
Corse e corse per strade e autostrade, macinò chilometri, le sembrò addirittura di attraversare altri stati.
E invece si era semplicemente attraversata tutta la penisola italiana e, attraversato lo stretto di Messina in battello (sapeva anche nuotare, ma la traversata a nuoto era solo per tigri adulte) aveva proseguito fino alla punta sud, ispirata dalla bellezza dei paesaggi e delle spiagge. Fortunatamente era inverno, giacché le tigri bianche, d’estate e al sole rischiano di morire.
Marina di Modica, così si chiamava quella spiaggia bellissima e bianchissima dove decise di riposare le sue zampe stanche di cucciola stanca. Lì perché poteva mimetizzarsi tra la sabbia fina.
Non aveva mai visto il mare.
Le sembrava così dolce, materno, alle volte procelloso come una mamma arrabbiata che ti sgridi a ragione e alle volte placido e avvolgente come un abbraccio che ti calmi tra i singhiozzi, che ti asciughi lacrime amare di paura e dolore.
Proprio mentre era assorta a guardare quel mare bello e dolce e avvolgente vide passeggiare quasi a passo dell’oca un ometto sui tredici anni.
Non era come i mocciosi del parco di Palestro.
Aveva l’aria e i modi del piccolo gentleman, molto in punta di forchetta, schiena ben dritta, pieno di orgoglio maschile.
Il faccino era un po’ altezzoso, ma nel complesso era buffo, goffo e tanto tenero.
Al piccolo principe non sfuggì la cucciola di tigre, anzi, quando passò in corrispondenza di lei, lui era sul bagnasciuga e rischiava di bagnarsi i suoi bei stivaletti rossi fatti su misura, non robaccia firmata o peggio in saldo; lui, il piccolo principe fece un piccolo movimento del capo e la guardò con la coda dell’occhio, la guardò dritta negli occhi azzurri e deboli e le graffiò il suo piccolo cuore di cucciola.
Cosa voleva quella via di mezzo tra cucciolo e uomo? E perché aveva sentito tanta dolcezza che le addolciva il cuore a pensare a quell’istante? Era tanto piccolo! Tanto minuto! Quanta tenerezza, un uomo in miniatura, un po’ uomo e un po’ bambino, all’incirca tredici anni.
Era la cosa più bella, pura, dolce e nobile che la tigre avesse mai veduto.
Lui era passato oltre, con il nasino all’insù, certo anche lui apparteneva alla buona società di cui facevano parte le mamme con gli scarponcini strani, anche lui era firmato, ma i suoi scarponcini erano assai più belli e così lucidi da potercisi specchiare!
Il piccolo principe si mise a una decina di metri dalla tigrotta e tirò fuori un libro grande e grosso con una copertina rosso scuro e con una matitina delle proporzioni delle sue manine principesche si mise a scribacchiare ai margini di ogni pagina.
Tante note per un grande poeta.
Quel poeta piaceva tanto al piccolo principe perché era alto ed elevato e nobile e puro e cerebrale, esattamente come lui.
Il poeta che il nostro principe leggeva si chiamava Giacomo.
Nota al lettore, Giacomo avrebbe dovuto essere inghiottito da una tigre bianca famelica, per quanto ci riguarda, giacché Giacomo parla della vita come uno che non ha mai toccato la sabbia di Marina di Modica possa parlare di castelli di sabbia. Che ne sa Giacomo di castelli di sabbia? Della vita? Della realtà reale fatta di bruttezza, storture, prostitute, sbronze, bestemmie, assenzio?
Perdoneremo il nostro piccolo principe, gli amori di gioventù spesso vengono abbandonati in età matura, e i versi che piacciono ad un adolescente incompreso fanno solo sorridere un giovane padre che più non si ritrova in essi.
Il nostro piccolo principe era proprio intento e assorto nelle sue sudate carte.
E la cucciola era così piena di gioia di avere accanto una creatura tanto distinta, di avere accanto a sé tanta grazia che iniziò a scodinzolare anzi, a far vibrare violentemente la coda e poi a fare grandi balzi sul posto.
Gli sarebbe corsa incontro e saltata al collo per dargli una leccata sulla guancia ma conteneva stentatamente il suo delirio di felicità, era così puro che temeva di scalfirne il miracolo.
Il piccolo principe si accorse dei balzi della tigre e non sapendo bene come reagire, un po’ imbarazzato si alzò, scosse i pantaloni candidi come la sabbia e come la tigre, la guardò ancora una volta, sempre goffo e timido, con quella goffaggine che è tutta maschile e spesso è nascosta da chi cammina altero con il nasino alzato, la guardò e se ne andò per la sua strada.
Le tigri bianche sono animali selvaggi e non li puoi addomesticare come una stupida volpe e forse il piccolo principe lo sapeva, ne aveva addomesticate così tante di volpi che ora aveva la vulpis nauseam.
In cuor suo la tigre sperava che il principe sarebbe giunto ancora alla stessa ora il giorno successivo, sperava, proprio come una stupida volpe.
E il principino nostro giunse, ma in ritardo, il sole era già calato e la tigre stanca e con il cuore di cucciolo rotto in schegge di dolore per la perdita della creatura amata, si era assopita proprio in riva al mare, quasi il suo mare potesse coccolarla e farle le carezze mai ricevute.
Il principe incosciente e incapace di relazionarsi a una tigre, cucciola o adulta, non sapendo come svegliarla le tirò forte un baffo. Fu un attimo, la cucciola gli si avventò sopra, 40 chili contro 40 chili, ma la tigre che non era più cucciola ma anche lei adolescente aveva la forza e la violenza di chi ha sofferto e per sopravvivere deve difendersi: gli ringhiò contro premendo forte le zampe contro le spalle di lui, occhi azzurri deboli dentro ad occhi azzurri arrabbiati di tredicenne senza difese. Un altro ringhio più forte:
— Qui comando io che sono più forte e tu non mi devi toccare, capito?
— Togliti stupida tigre!
Le gridò il principe, un grido secco, quasi un comando. Non fu l’umiliazione di essere chiamata stupida, ma la sua voce, dolce anche quando arrabbiata, e quell’infantile difetto di pronuncia, il ‘gl’ come lo pronunciano i bambini.
Quella voce, non così maschiolina, ma dolce e delicata, come le mani di lui, come i suoi lineamenti, e i suoi ricci, composti, perfetti anche nella rena, perfetti tranne uno che era sfuggito alla spazzola materna, quella voce infantile fece vergognare la cucciola. Tornò in sé e vide che aveva lacerato una manica del suo principino amato.
Avrebbe voluto piangere dal dispiacere, come aveva potuto trattare così il ragazzino? Spaventarlo in maniera così brutale? Fece un balzo a destra, la cucciola di tigre bianca non poteva piangere, i suoi occhi deboli e malati non lo permettevano e così era costretta a tenere quella scheggia di dolore conficcata nel cuore.
Come aveva potuto attaccare quel candore infantile con le sue zampacce violente di felino?
Camminò rotta per qualche centinaio di metri. Camminò, come cammina chi non ha niente da perdere e non ha bisogno di correre perché non ha nessuno che l’aspetti incontro a cui correre.
Non dormì, quella notte né per le tre notti e i tre giorni seguenti.
Nel frattempo era tornata sul luogo dell’incidente, il luogo dove per l’ultima volta aveva visto il suo tesoro più prezioso. Pareva un canide e non un felide, quello famoso, quello che per morire aspettò il ritorno del suo padrone.
Così lei aspettava il suo padroncino.
Il piccolo principe era sì piccolo ma anche abbastanza svelto e certo molto curioso, curioso di vita da vedere e non da leggere e chissà… Magari una vita anche da vivere, quando sarebbe stato più grande.
Così, armato di tutto il suo coraggio e dei suoi stivaletti rossi scese alla Marina di Modica.
La tigre non lo vide di lontano, la sua vista era annebbiata, aveva perso peso e anche peli, chiazze rosa spuntavano dal manto striato, era la pelle, in certi punti tumefatta dal freddo, la tigre non aveva cercato di proteggersi e aveva vagato per tre giorni tra il bagnasciuga e la spiaggia, bagnata, colpita dal vento.
La cucciola era accoccolata e stanca in riva al mare.
— Tigre!
Lei alzò la testa di scatto, quella voce, candida, pura, che pungeva il cuore come un punteruolo la gomma piuma.
Lei alzò la testa di scatto e fissò gli occhi azzurri malati negli occhi azzurri di adolescente di lui.
Il principino le tirò senza preavviso una palla rossa, erano a qualche metro di distanza, lei scattò in aria e la prese al volo con la zampa destra per riportarla a terra e con cuore ricco di gratitudine la rimandò affettuosamente al piccolo principe con il muso.
Gli occhi del piccolo principe erano straniti e divertiti, gli occhi della cucciola di tigre bianca in attesa, che il suo principe le tirasse ancora la palla per farla giocare.
E se vedete una tigre bianca che vaga, bè, ora sapete che dovete solo tirarle una palla rossa per fare amicizia.
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