La fuga e il ritorno

Oggi è il giorno che me ne vado di casa per sempre.
Ho chiuso con la mia famiglia, non voglio più saperne nulla, sono indipendente, non economicamente, è vero, ma non voglio più essere intaccata dal loro dolore, dalle loro aspettative, dal loro malessere.
Mia madre, quella strega, non potrà mai più scalfire la mia integrità, il mio equilibrio con la sua malattia.
Avessi potuto andare a Sidney invece che a Dublino l’avrei fatto, mettere quanta più distanza possibile tra me e loro, mi intossicano, mi hanno intossicata fin qui, mi hanno fatta crescere storta e ho dovuto lottare per ogni briciolo di serenità. Vivere accanto a loro è stato come camminare in equilibrio su una trave e avere qualcuno che ti prende a spintoni per farti cadere.
Ma questo master è l’inizio di qualcosa di nuovo: la mia vita.

Mia sorella è partita oggi e mi ha lasciata sola, boccheggiante, un buco, un vuoto. È da sempre la migliore di noi due, quella su cui i nostri genitori hanno investito di più, è lei quella con la marcia in più, è lei l’enfant prodige, anche quando ha iniziato a soffrire di depressione a 17 anni. Non ho mai sofferto di questo ruolo subalterno, io la amo, è la mia spalla, la mia metà, la mia compagna di giochi e di litigi, il mio braccio destro contro il perbenismo di mamma e papà, siamo due reni dello stesso organismo, abbiamo bisogno l’una dell’altra. Fa la dura ma sta solo fuggendo dalla realtà, i problemi se li porterà dentro: cosa le succederà, sarà in grado di tirare fuori la sua parte guerriera e vivere senza legami nella terra dei leprecani?

Sono al settimo cielo, Kyle mi ha aperto il cuore in due, voglio anche io diventare un medico come lui e girare il mondo per salvare vite. Vorrei abbandonare i miei studi e cominciare daccapo con medicina, sono piena di energie, voglio quindi posso.
Ho dormito cinque ore negli ultimi tre giorni, sono forte, invincibile, non ho bisogno di nessuno, non ho bisogno neanche di mangiare e di dormire.
Compierò il bene, diventerò un medico e partirò in missione.

Ho una paura fottuta, devo andare a prenderla e riportarla a casa in Italia? L’hanno trovata disidratata sulla spiaggia di Dublino nel cuore della notte, un ragazzo l’ha accompagnata in ospedale.
Non sapevo cosa fosse un attacco psicotico: il distacco dalla realtà e la creazione di un mondo che esiste solo nella testa della persona che lo immagina. La mia sorellina.
Sogna un mondo migliore dove tutti sono medici.
Sogna di voler diventare lei stessa medico solo perché era il progetto dei nostri genitori.
Sogna a occhi aperti per non sentire il dolore, per lavare via lacrime e sangue.
Sogna.
Se potessi portarmela via dall’ospedale, dalla famiglia e prendermi cura di lei.
In Inglese si dice blank, vuoto, tabula rasa. Non sento niente, mi sveglio la mattina con la morte nel cuore, il desiderio di morire, di sprofondare, i libri sono uno svago, mi assorbono la mente. Sono un fallimento, non posso essere tornata in questa casa, non posso. L’unica creatura che sento a livello emotivo è mia sorella, vorrei sprofondare in lei. Perché mi ama così tanto? Vorrei essere migliore solo per lei, essere degna del suo amore, non deluderla. Mi tiene in vita.

Averla di nuovo a casa è un sollievo ma assorbo tutto il suo malessere. Passa le giornate stesa sul letto a leggere, la porta chiusa, isolata. Le medicine che prende la stordiscono, medici porci, ha problemi psicologici, ha traumi, ha bisogno di parlare, non di essere sedata. E i miei genitori? Assenti, non prendono posizioni, mio padre le rivolge a malapena la parola, mia madre che la insegue con i depliant dell’università di turismo visto che con letteratura non è andata. Chi ne capisce il dolore, la sofferenza? E io cosa posso fare? Ho solo 18 anni.

Si riparte! Con Dublino è andata male ma a Londra sarà diverso: ero sola, ora sarò con una famiglia e lavorare con una bambina mi terrà legata alla realtà. E con i soldi che metterò da parte potrò specializzarmi e diventare insegnante nel Regno Unito! É fantastico avere dei progetti, questo è il mio sogno e nessuno può portarmelo via.
Il passato è passato e non ho più sentito i ragazzi che facevano i medici di Dublino, mi piacerebbe ma ne ho paura.

Lo sapevo, sapevo sarebbe successo di nuovo. Mi aspettavo nella notte quella chiamata. Chi avrà dato il mio numero all’ospedale di Londra? Lei? Non posso andare a trovarla, sono sotto maturità. Basta, non ne posso più, tutto questo è troppo e nessuno che si occupi di lei, ha bisogno, abbiamo bisogno. Di respirare. Di un po’ di pace. E lei ha bisogno di me per restare incollata con i piedi per terra. È un anno che non la vedo.
Ci siamo sentite poco, perché?
Perché rifiuta anche me?

Non posso tornare per la seconda volta, la seconda sconfitta.
Non so chi sono né cosa voglio.
So che l’unica persona cui sono legata è in Italia e io non la vedo da più di un anno.
Mi vergogno.
Sono io la sorella maggiore e mi sento così piccola.

Nell’Odissea si dice che il dì più felice è quello del ritorno del padre. Omero non aveva una sorella probabilmente.
La mia gioia nel rivederla: la gioia di una madre che vede gli occhi chiusi della sua creatura per la prima volta.
È mia, non si farà più del male.


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