Il poeta calciatore: Pier Paolo Pasolini

I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale.

Le immagini più belle di Pier Paolo Pasolini lo ritraggono calciatore, non poeta, non regista, lo immortalano mentre si prende la libertà di sporcarsi e sudare, infangarsi i vestiti e correre. Ha chiamato, ha detto “passamela!”, e via.  Il modo di essere libero è quello tipico del bambino, che può galoppare senza remore dietro al pallone anche con il vestito della festa e i mocassini, perché a vedere una palla che spicca un salto e ruzzola non si può star lì a guardare senza far nulla.

Lo scrittore col pallone tra i piedi sopra una pezza d’erba e intorno parecchi ragazzi scamiciati. Tra Pietralata e Monteverde imbattersi in una “partitella“ doveva essere cosa abituale e Pasolini partecipava, secondo la testimonianza di Ninetto Davoli, sempre volentieri e con entusiasmo, una sorta di piacevole impellenza alla quale era ben facile arrendersi. Riconoscere il poeta in cravatta che gioca per strada a quarant’anni mette addosso una qualche malinconia ma è lui stesso che,a causa della sua passione calcistica illimitata, in quegli anni assimilerà in modo alquanto originale il calcio a un vero e proprio linguaggio, coi suoi poeti e prosatori, e definirà il football un sistema di segni, cioè un modo d’esprimersi, che ha tutte le caratteristiche fondamentali di quello scritto-parlato.

Pasolini era un atleta sicuro, aveva un atteggiamento combattivo e i piedi buoni. Per lui, le partite di pallone erano una cosa seria. Giocava mediano, oppure ala. Correva e si metteva a disposizione del gruppo. Non aveva l’istinto del gol, ma sapeva come aiutare i compagni: aveva intuiti brillanti, da numero dieci. Tifava Bologna, squadra per la quale nutriva un grandissimo affetto.

Enzo Biagi in un’intervista su La Stampa del 4 gennaio del 1973 gli chiese: “Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?”. “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri” e probabilmente ci sarebbe riuscito sul serio se la vita non avesse fatto di lui uno dei più grandi letterati de XX secolo.

Per il corsaro, il pallone, non era una distrazione: era molto attento al risultato ed estremamente competitivo. La partita era per lui occasione di dedicarsi a una passione vera e isolarsi delle innumerevoli voci e discussioni sul suo conto che occupavano l’opinione pubblica. Per lui il calcio era semplice, ne conosceva le regole e le contraddizioni.

Ci rimase male quando il team di Novecento di Bernardo Bertolucci ottenne la vittoria sulla sua squadra, quella del film Salò e le centoventi giornate di Sodoma. Una partita che avrebbe dovuto rappacificare il suo rapporto con il regista, e invece Pasolini, uscì dal campo arrabbiatissimo, rimproverando l’avversario di aver schierato un paio di giocatori del Parma. Giocava per la vittoria, certo, ma da sostenitore non andò mai oltre la presa in giro di fine partita.

L’intellettuale più discusso d’Italia al calcio ci teneva parecchio. Il ritratto di uno scrittore che giocava, dovunque, sul set, per strada, in borgata. E la domenica allo stadio, in prima fila, a tifare Bologna. Sostenitore attento aveva le sue visioni del mondo del pallone, ma preferiva tenerle per sé “perché di commissari tecnici in Italia ce ne sono fin troppi” rispose quando gli domandarono un parere sulla Nazionale che in quel periodo navigava in acque burrascose.


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