La comunità sikh (da sikhismo) in Italia, con circa settantamila membri, è la seconda per numero in Europa.
Insediatasi principalmente in Emilia e nell’Agro pontino, ma ultimamente anche nelle pianure lombarde, è composta principalmente da braccianti apparentemente instancabili, che lavorano nei campi fino a quindici ore al giorno, con una paga che a volte scende sino a quattro euro all’ora. Se ne è parlato ultimamente a causa di alcune testimonianze raccolte a Sabaudia, che sembrano rivelare una fornitura di sostanze stupefacenti a questi lavoratori da parte degli stessi datori di lavoro.
“Per la raccolta delle zucchine stiamo piegati tutto il giorno in ginocchio. Troppo lavoro, troppo dolore alle mani. Prendiamo una piccola sostanza per non sentire dolore”. Ma cosa sappiamo veramente di questi indiani provenienti dal Punjab, dietro quei turbanti facili da notare?
Nato nel quindicesimo secolo nella città indiana di Anandpur Sahib, il sikhismo è la quinta religione per numero di fedeli al mondo, e la terza fra quelle monoteiste. Il suo principio base è infatti la presenza di una sola divinità, un creatore. Si basa sugli scritti di dieci guru, uomini vissuti fra il ‘500 e la fine del ‘700, che, si dice, fecero scopo della loro vita un passaggio dal Buio dell’ignoranza alla luce della conoscenza. Il primo guru fu Nanak Dev Ji (1469–1539), e poi, a seguire, ognuno degli altri nove diede il suo contributo a questo nuovo culto, aggiungendo tradizioni più o meno in contrasto con il predominante induismo.
Il sikhismo si basa su tre principi fondamentali istituiti dal primo guru: la preghiera, utile per ricordare il creatore in ogni momento, il lavoro, che consente di vivere dignitosamente senza imbrogliare il prossimo, e la condivisione, anche in minima parte, del proprio guadagno.
Fra le novità si ricordano le obiezioni fatte dal terzo guru riguardo alla pratica chiamata Sati, che imponeva, in caso di morte di un uomo sposato, di bruciare nella pira funebre anche la vedova. Questo fu uno dei primi passi verso l’enunciazione dell’importanza dell’uguaglianza fra uomini e donne, e in generale della parità fra tutti gli esseri umani, in contrasto anch’essa con la rigida divisione in caste allora presente.
Molti punti di incontro sembrano invece esserci con il cristianesimo: simili ai sette peccati capitali, ad esempio, sembrano essere i Cinque Mali (Panj Dosh): lussuria, rabbia, egoismo, desiderio e attaccamento ai beni materiali. La stessa traduzione del termine sikh (dal sanscrito “allievo”, “studente”), ricorda il termine cristiano “discepolo”. Alcuni dei guru, come i martiri cristiani, accettarono di morire o essere torturati in nome delle loro credenze.
Tuttavia in altri aspetti si avvicina molto di più alle filosofie orientali: per esempio non esclude la possibilità di appartenenza a più di una religione contemporaneamente: il nono guru fu condannato a morte per aver parlato in favore anche dell’induismo, in un periodo storico in cui il Punjab, oggi unica regione a maggioranza Sikh, era sotto dominazione musulmana.
A differenza di buddismo e induismo, tuttavia, il sikhismo non rifiuta la possibilità, se assolutamente necessario, di utilizzare le armi a scopo difensivo, come affermò il sesto guru.
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