Vite spezzate

Finisce l’applauso e cominciano le note della canzone successiva. La riconosco immediatamente, è la mia preferita e istintivamente comincio a saltare e a ballare, non vedevo l’ora arrivasse questo momento dal giorno in cui ho comprato i biglietti per questo concerto. Il teatro è pieno e stare in mezzo a così tanta gente che si diverte, unita dalla stessa passione per la musica, mi fa sentire immensamente viva.
Sento un rumore sul fondo della sala, ma non mi preoccupa, la musica è più forte e la sento vibrare fino a toccare qualche corda della mia anima, quasi riesce a farmi commuovere. Mi sento immensamente viva, viva e felice.
Si sente un altro rumore, questa volta più forte. Le persone intorno a me smettono gradualmente di saltare e ballare e cominciano a guardarsi intorno. Nessuno capisce da dove provengano questi boati.
La folla intera comincia a fermarsi e i membri della band, dal loro punto di vista sopraelevato, cominciano ad assumere la stessa espressione, che non riesco a cogliere subito. Il cantante stacca velocemente il microfono dall’asta e comincia a urlare terrorizzato: «No… no… Dobbiamo uscire di qui, dobbiamo uscire tutti di qui!». Cerca di comunicare con una folla ancora troppo rumorosa, le cui voci lentamente si affievoliscono, lasciando spazio solo a quel rumore che prima sembrava lontano, ovattato e che ora invece è ben definito e terribilmente vicino. Sono spari. Non uno, non due. Sono spari in sequenza ed è una sequenza velocissima. Le persone intorno a me cominciano a gridare, a cercare una via d’uscita. Ancora non riesco a vedere il fondo della sala, non riesco a capire da dove provengano questi spari. La folla comincia a strattonarmi, a spingermi di qui e di là, mentre rimango con lo sguardo fisso verso il fondo della sala, lasciandomi ciondolare da chi mi passa di fianco. Devo vedere da dove vengono quegli spari, ho bisogno di vederlo coi miei occhi.
Il mio ragazzo mi strattona e mi risveglia dal torpore in cui mi sono ammutolita nel momento in cui ho distinto quei rumori. Non avevo mai sentito il rumore di uno sparo, non ero mai stata così vicina alla morte. Mi strattona e mi urla che dobbiamo andarcene, la sua voce è coperta da migliaia di altre voci, che gridano, chiedono aiuto, incitano alla fuga. Una ragazza poco distante da me chiama la polizia, grida al telefono frasi che sembrano sconnesse, richiede un intervento immediato. Sono in molti quelli che chiamano la polizia.
Io, con lentezza, estraggo il mio telefono dalla tasca, mentre il mio ragazzo ancora cerca di smuovermi dal punto fisso della sala in cui i miei piedi si sono impuntati. È come se la frenesia di quel momento non riuscisse a penetrarmi, come se fossi immune da quel panico, da quella paura. O forse il mio panico e la mia paura sono proprio racchiusi in questo immobilismo. Non riesco a pensare, compongo il numero di mia mamma. È tardi, la sua voce, dall’altro capo del telefono, è assonnata.
«È successo qualcosa?»
«Non ti preoccupare. Volevo solo dirti che ti voglio bene. Veramente, mamma. Sono contenta che sia stata tu la mia mamma». Attacco, senza attendere una sua risposta.
I movimenti davanti a me cominciano a cambiare. Gli spari sono sempre più vicini. Le persone continuano a venirmi addosso, a spintonarmi involontariamente. Piangono, gridano, si disperano. Il mio ragazzo non capisce cosa mi stia succedendo, ma nonostante questo non si allontana. Continua a parlarmi, ora con tono più dolce, cercando di convincermi a staccare i piedi da quel punto e cercare un riparo.
C’è un gruppo di dieci ragazzi a qualche metro da me, indietreggiano nella mia direzione, alcuni senza voltare le spalle, altri girandosi verso di me, guardandomi con gli occhi colmi di disperazione e paura. È come se si aspettassero che io faccia qualcosa. Li vedo sobbalzare e poi cadere a terra. Tutti e dieci. Uno dopo l’altro.
Dietro di loro spunta un uomo, barba nera e lunga, una lunga tunica nera e un enorme fucile in mano. È stato lui a far cadere, uno dopo l’altro, quei dieci ragazzi. Come lui, altri due uomini, barba nera e lunga e lunga tunica nera, stanno facendo cadere a terra decine di ragazzi. L’uomo incrocia il mio sguardo, ancora fisso su di lui, su quei corpi che non hanno nemmeno avuto il tempo di accorgersi che la loro vita stava finendo. Si volta verso destra e prosegue la sua caccia.
Prendo una boccata d’aria, come quelle che si prendono non appena si risale in superficie dopo una nuotata in apnea. È questa boccata d’aria che mi risveglia, che comincia a farmi tremare e piangere e non capire più nulla. Il mio ragazzo mi prende per un braccio e mi fa nascondere dietro, praticamente sotto alcuni corpi che giacciono esanime vicino a noi. Stiamo usando dei ragazzi senza vita come scudo. La sopravvivenza, a volte, ha delle tinte macabre.
Mi abbraccia fortissimo, mi sussurra che mi ama, ma che devo smettere di tremare, che devo rimanere immobile, chiudere gli occhi e cercare di respirare nel modo più flebile possibile.

Dopo circa quindici minuti dall’inizio del primo sparo, che per me sono stati come anni interi, sentiamo delle sirene in lontananza; i tre uomini, barba nera e lunga e tunica lunga nera, fuggono. Nessuno ha il coraggio di provare a fermarli, di braccarli. Sono sempre loro quelli coi kalashnikov.
Con estrema lentezza, coloro che in qualche modo sono riusciti a salvarsi, alzano le teste dal pavimento, escono dai loro nascondigli. Regna il silenzio all’interno del teatro. Nessuno riesce a dire nulla. Non riusciamo nemmeno a piangere.
Ho appena visto la morte in faccia e tutto intorno a me. Ho appena usato il corpo di una mia coetanea per salvarmi la pelle. Il mio ragazzo alza la testa per primo e scruta la situazione senza esporsi. Se ne sono andati.
Noi, i sopravvissuti, cerchiamo di rialzarci, come meglio possiamo. Ci scambiamo sguardi vuoti, senza espressione; non abbiamo nulla da dirci.
La polizia fa irruzione nel teatro, con le armi puntate intorno, ancora alla ricerca dei portatori di tutta quella morte. Alla vista di quelle armi, istintivamente ci abbassiamo di nuovo tutti. Cominciano ad avvicinarsi a noi, abbassando le armi e allungando le mani, in segno di aiuto. Li seguiamo, usciamo da quel teatro, i giornalisti sono già lì, insieme almeno a un centinaio di esponenti delle forze dell’ordine. Ci forniscono tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Ma la verità è che l’unica cosa di cui avremmo bisogno, è dimenticare.
Dimenticare l’orrore a cui abbiamo appena assistito.
Dimenticare i corpi esanime intorno a noi.
Dimenticare che, sotto a quei corpi, ci siamo nascosti per sfuggire alla morte.
Dimenticare che una serata di festa, di gioia, di spensieratezza, è stata trasformata da dei fanatici colmi d’odio nella sera più orrenda della nostra vita.
Dimenticare questa sera, per riuscire a tornare a vivere di nuovo. Forse, un giorno.


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