«Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio», diss’io quando fui dritto
«a trarmi d’erro un poco mi favella»1
Dante conclude l’Inferno pressappoco come il Paradiso: pieno di dubbi. Come il poeta, vorrei con questo scritto sollevare un dubbio, una domanda che nasce da un’osservazione di un Dante agens (il Dante personaggio della Commedia) che si commuove, diventa rosso, imbrunisce il viso e prova emozione a guardare i dannati de lo ’nferno. Trovandosi nel regno del peccato, le reazioni del protagonista sono fondamentali all’apparato metaforico e allegorico dell’intera cantica. Come Virgilio rappresenta esso stesso la ragione, Dante rappresenta se stesso in un processo che porta a una coscienza più completa della propria persona e del rapporto dell’umano con il divino in virtù della Giustizia. L’uomo-Dante vive sentimenti umani scaturiti dalla visione del sacro adempimento del compito del boia – eseguire la giustizia – che ai dannati è il meglio che può metafisicamente accadere come testimonia la risposta al genovese Alberigo di Ugolino dei Manfredi, meglio detto frate Alberigo:
E io non gliel’apersi [li occhi];
e cortesia fu lui esser villano.2
L’ambiguità del vocabolo cortesia spiega in breve la motivazione del mio dubbio: può significare “atto di giustizia, obbediente alla legge divina” oppure “gesto signorile intonato ai meriti di tale peccatore”, o almeno queste sono le due opzioni che danno Pasquini e Quaglio. Questa cortesia è un elemento che nell’Inferno ha un’importanza strutturale tanto che Dante auctor (Dante Alighieri in carne e ossa) si preoccupa di aggiungere vari momenti di rimprovero da parte di Virgilio, di ragionamento sui propri sentimenti di Dante e momenti di dialogo fra i due. Esempio lampante di questo fenomeno sono le terzine finali del XXX canto:
Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ‘l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!»3
Quell’intenzione cara ai pietisti che deve risiede in ogni azione morale è addirittura necessaria nel momento in cui si assiste al peccato, tanto che il Mantovano chiama l’attardarsi di Dante una bassa voglia. Non è proprio del beato interessarsi a questo bieco battibeccarsi fra dannati. Eppure Dante prova interesse, e non solo interesse, verso i dannati, rimanendone anche sopraffatto varie volte. In modo minore ma comunque importante, Dante si spaura davanti ai Giganti, in modo quasi fatale:
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fialte a scuotersi fu presto.
Allor temett’ io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.4
Ma è fondamentale il pallore del viso di Francesca e la tristezza della storia dei due amanti che suscita in Dante il famoso svenimento (che si imputa a Dante come escamotage per non descrivere alcuni passaggi):
Poi mi rivolsi a loro e parla’io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.5[…]
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.6
Questo modo di reagire è poi richiamato apertamente molto più avanti nel cammino dantesco dalla riproposizione di uno stilema che descrive il modo di confessarsi del dannato. Il punito etternamente è il conte Ugolino, nel XXXIII canto, che si confessa in modo che debba parlare e lagrimar […] insieme.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
Pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?7
Il conte è sconvolto dal fatto che Dante non sia sconvolto da un racconto così toccante come il proprio destino legato a un presunto atto di cannibalismo. Così l’apostrofa e Dante volutamente non risponde, e in un silenzio di incomprensione ricomincia a parlare cercando di arrivare nel profondo di un animo umano. Ma ormai Dante non è più così uomo alla fine della discesa nel nero pozzo, tanto che il trattamento che riserva al frate Alberigo è lo stesso di Ugolino, che si trovano nello stesso canto. Dante si disinteressa del terribile destino di un padre devastato dal pasto della propria stessa carne, e inveisce contro Pisa che lascia morire pargoli privi di colpa: questo è un segno di riavvicinamento alla divinità, comprensione della pena e assegnazione della punizione senza punire chi non deve essere punito.
Ma questa pietade di cui Dante parla da quale natura è scaturita? Di quale materia è fatta? La domanda è più che lecita e rimane difficile soddisfare la risposta soprattutto dopo aver letto la discussione su Geri del Bello. Dante è mosso a compassione anche verso un suo familiare giustamente e divinamente punito nella nona bolgia: ma un meccanismo familiare rientra nella comprensione divina? Sembra multiforme e in continua evoluzione questa pietà dalla vicinanza peccaminosa con Francesca a quella paternalistica verso Geri e al rispetto per la silente figura di Bruto. Ma come si giustifica questo comportamento di Dante? L’inferno esiste solo per chi ne ha paura?
Fonti
1 Dante, Inferno, Canto XXXIV, vv. 100 – 103
2 Dante, Inferno, Canto XXXIII, vv. 149 – 150
3 Dante, Inferno, Canto XXX, vv. 130 – 132
4 Dante, Inferno, Canto XXXI, vv. 106 – 111
5 Dante, Inferno, Canto V, vv. 115 – 117
6 Dante, Inferno, Canto V, vv. 139 – 142
7 Dante, Inferno, Canto XXXIII, vv. 40 – 42
Crediti