La guerra era diventata un argomento di dibattito. Ognuno ne aveva la sua idea e la sua visione ed era orgoglioso di esporla e portarla avanti con coerenza tra gli amici dell’alta società. Era tutta una cosa astratta fatta di persone che saltano in aria e fango tra le mani e piccole parole scritte su fogliettini maciullati. La guerra era il giusto contro lo sbagliato, il buono contro il cattivo, filosofia contro filosofia tra chi non la stava vivendo se non in quanto speculazione mentale.
Ma gli immigrati si imponevano agli occhi e alla mente, nella vita concreta di coloro che assaporavano la guerra solo con la testa. Gli immigrati erano la testimonianza viva e vera che la guerra era esseri umani contro esseri umani. Perché quegli immigrati erano esseri umani no? Lo erano? Non per tutti a dire la verità. Per qualcuno non erano che fantasmi provenienti da luoghi lontani, coalescenze di esseri che tanto parevano fatti di carne quanto di impalpabile materia di nulla. In molti provarono a non accorgersi di loro, a non accorgersi della guerra, a fare finta che quell’onda di sfollati non fosse che l’intrusione inspiegabile ma certamente momentanea del mondo dei sogni nel mondo della veglia. Dalla guerra, che non esisteva, veniva della gente, che non esisteva. Cosa esisteva allora? Esisteva una psicosi collettiva e una maledetta paura di essere in fondo tutti uguali.
Con uno sguardo solo tutta la campagna sottostante si poteva catturare dalla finestra della stanza di Effe. Che meraviglia poter aspirare al mattino la nebbia grigia e l’odore d’insetto bagnato di rugiada cristallina. È una meraviglia quando la guerra non esiste. Ma una mattina la guerra si presentò sotto forma di carne, ossa, pulsazioni e occhi umili e umiliati, nel rettangolo nebbioso della finestra di Effe. Sotto, verso il cancello della grande villa di famiglia, stavano camminando sei o sette persone dalle gambe magre e stanche, sulle spalle zaini, e medaglioni di riconoscimento sotto il collo, penzolanti. Effe si precipitò giù dalle scale per avvertire la famiglia di ciò che stava per giungere alle loro porte: arrivavano gli inesistenti. Quando fu nel grande salone d’ingresso vide che già i suoi genitori e i suoi fratelli erano alle finestre, alle cinque finestre, una ciascuno a osservare ammutoliti, le tende scostate, la marcia speranzosa di quella famiglia di sfollati. In assoluto silenzio tutti cominciarono a guardarsi: erano belli, erano ricchi, erano felici, erano salvi dalla morte, fuori dal mondo, quel mondo che si stava presentando ai loro occhi a chiedere aiuto, munito di medaglione di riconoscimento: un’altra razza, un altro modo di pensare, di vivere, di essere umano.
«Non si discute. Li accoglieremo.» Era stato il padre di Effe a parlare. Davvero non si discusse e senza dire altro si aprì il cancello, si aprì il portone, si aprirono la cucina e le stanze e quelle sei o sette persone trovarono rifugio in quella villa fuori dal mondo, in quella villa dentro la guerra.
I primi tempi passarono nell’imbarazzo. La famiglia di Effe era generosa e buona, senza un perché, senza interessamento, senza spiegazione. Offrì loro cibo, letto, acqua calda e pulizia. Lentamente incominciarono tutti a conoscersi. «Veniamo dalla paura» avevano detto. Erano anche loro una famiglia, ed erano miracolosamente riusciti a scappare tutti insieme dal loro paese fatto di bombe. Ringraziavano Dio ogni giorno, più volte, per essere riusciti a trovare rifugio; ringraziavano Dio, ma mai loro, mai la famiglia di Effe che senza nemmeno capire davvero aveva offerto loro la salvezza. Effe era emozionata da tutta questa novità. Era sempre rimasta sola e annoiata in quella enorme villa e solo adesso, per la prima volta vedeva degli sguardi diversi, tutti bellissimi, tutti verdi, in contrasto con quella pelle scura, colore della terra morbida, amarognola. Eppure presto cominciò a spazientirsi: loro capivano la lingua, la parlavano anche, perché li aveva sentiti usarla tra di loro, ma non si rivolgevano mai alla sua famiglia, non si rivolgevano mai a lei come se avessero qualcosa da rimproverarle. Arrivata al culmine della sopportazione decise un giorno, presentandosi l’occasione, di rivolgersi al membro della famiglia che più la incuriosiva. Si trattava del figlio maggiore, lui che aveva sicuramente la sua età, lui che aveva la pelle più marroncina di tutti, lui che aveva quegli occhi di menta che si fermavano su di lei fissi ogni tanto e la facevano smettere di respirare. Erano meglio dell’odore di insetti bagnati di rugiada, erano meglio di tutta la campagna e la bellezza silenziosa che lei avesse mai visto dalla sua finestra.
Lui camminava in tondo nel giardino della villa e ogni tanto spariva dietro a un albero; spariva per così tanto tempo che Effe temeva non sarebbe più ricomparso. Lo osservava e impazziva. Una tensione mai provata prima le partiva dallo stomaco e la permeava. Era una spinta fisica, un desiderio incolmabile verso di lui, verso quegli occhi, verso il suo silenzio che avrebbe voluto mandare in mille pezzi come un vaso di vetro. Quando si alzava al mattino, prima di aprire la finestra, si scopriva a pensare a lui e da sola arrossiva, come se qualcuno l’avesse vista. Si sentiva soffocare all’idea che prima o poi se ne sarebbe andato. Adesso però era lì che camminava in tondo tra i pini del giardino.
«Perché non dici mai niente? Siete tutti così silenziosi, mi fate innervosire… Vi stiamo dando tutto!» Si rivolse a lui con un tono irriverente, l’ultima cosa che avrebbe voluto fare nella vita.
Lui fece finta di spaventarsi, ma stava sorridendo: «Anche tu non mi hai mai detto niente». Non accennò agli altri membri della famiglia, come se ci fosse solo quel “tu” e quel “mi”. Effe si sentì disgregare e poi ricomporre in un istante: aveva finalmente sentito la sua voce. «È tutto reciproco, io credo, nel mondo». Lui aveva continuato sorridendo ancora di più nel vederla ammutolire e arrossire.
«Vi siamo molto grati per quello che state facendo per noi. Ma siamo spaventati e confusi. Ci avete accolto senza chiederci niente. Nel nostro paese ci uccidevano. Ci hanno messo al collo questo medaglione e ci hanno chiamato nomadi, senza-patria, senza-religione, diversi. Perché voi non lo state facendo? Volete denunciarci forse, di nascosto ucciderci…»
«Voi siete diversi! Siete scuri, magri, con questi occhi verdi e trasparenti. Forse siete voi che volete farci del male. Venite dalla guerra, avete imparato a uccidere, noi non l’abbiamo mai fatto.»
«Hai ragione. Siamo diversi. Io e te siamo diversi. Io sono un uomo, tu sei una donna. Credo che questo basti». Poi sorrise e disse di chiamarsi Jey. Anche Effe si presentò e poi giorno dopo giorno si innamorò inevitabilmente di lui.
Appena Effe aprì la finestra una mattina sentì che se n’erano andati. Lo sentì dentro, come una voce: la presenza di un’assenza pesantissima. Corse giù dalle scale e vide la sua famiglia seduta nella sala, sulle poltrone, sul divano. Tutti avevano uno sguardo triste, come se avessero perso un amico.
«Se ne sono andati vero?»
«Se ne sono andati. E ci hanno preso tutto: gioielli, oro… Hanno svuotato persino la dispensa. Ci hanno lasciato solo questi: i medaglioni».
Effe avrebbe voluto sparire, evaporare, diventare un insetto, una goccia di rugiada, un paio di occhi verdi ed essere solo quello, non un essere umano che vive di perdite. Improvvisamente tutto le crollò addosso: capì che erano in guerra, capì che erano salvi solo perché erano ricchi – e i ricchi possono fare quello che vogliono – capì che erano tutti tremendamente diversi, e che erano tutti cattivi e un po’ buoni, ed egoisti e capì che l’essere umano ha paura, ha tremendamente paura della reciprocità, perché reciprocità implica accettazione, accettazione implica responsabilità di non fare del male e dunque, nel peggiore dei casi, amare inspiegabilmente. Jey aveva avuto paura di essere come lei, aveva avuto paura di essere lei, ed era scappato.
Senza più pensare razionalmente Effe si mise al collo il medaglione di riconoscimento e disse che se ne sarebbe andata. Con la stessa comprensione muta che sempre aveva contraddistinto la sua famiglia, anche gli altri si misero al collo il medaglione e con un paio di borse abbandonarono la villa in cui sempre avevano vissuto, rimasta ormai vuota di tutto.
«Non piangere Effe. Li troveremo, lo troveremo. Hanno solo avuto paura. Ora siamo come loro, ed è questo quello che importa, perché solo in questo modo potremo capire». Suo padre l’aveva presa in disparte, mentre camminavano tutti insieme.
«Grazie papà, non mi sono mai sentita così».
«Così come?»
«Così spoglia, così incompleta, così diversa».
Nel dire queste parole prese tra le mani il medaglione e si accorse che si poteva aprire. Smettendo improvvisamente di respirare allentò il gancio e dentro vi trovo un fogliettino spiegazzato. Si riconobbe piangendo nel ritratto a matita che Jey aveva fatto di lei. Era diventata per un attimo i suoi occhi, era diventata lui che vedeva lei, e come lui camminava con uno zaino sulle spalle, una sfollata, una terrorizzata, una diversa col medaglione di riconoscimento. Sotto al disegno tre parole: tutto è reciproco. Si asciugò le lacrime e continuò a camminare, come un fantasma inesistente.
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