Perché leggere l’Oreste di Euripide oggi? Certo, non perché tra le opere del grande tragediografo ateniese è tra quelle da sempre più osannate. Per avere un assaggio della critica del primo Novecento, basta citare la salace immagine con il quale la bollò un grande grecista vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo, Ettore Romagnoli: “pianta parassitaria”.
La metafora erboristica si riferisce al proliferare infestante di personaggi, motivi mitologici originali e digressioni gnomiche e filosofiche (inserite importunamente), in una narrazione frastagliata da una scarica continua di colpi di scena. Ma forse è proprio una tragedia di questo genere che meglio si presta a rapire, o addirittura commuovere, il lettore contemporaneo.
In effetti, la vicenda è inedita. Si potrebbe ipoteticamente incastonarla tra il racconto delle Coefore e quello delle Eumenidi, facenti parte della trilogia eschilea dell’Orestea, che trae la sua materia dalla saga della famiglia di Agamennone: il suo assassinio compiuto dalla moglie Clitemnestra, a sua volta uccisa dal figlio Oreste per vendicare il padre e, infine, la purificazione divina di quest’ultimo dal matricidio. Ma, tra la conclusione delle Coefore, in cui Oreste, appena uccisa la madre per volere di Apollo, inorridito e sgomento, viene circondato dalle Erinni, le divinità vendicatrici dei delitti tra consanguinei, e l’inizio delle Eumenidi, dove il giovane eroe riesce a scappare, letteralmente, da sotto il naso dalle sue persecutrici (che “russano”), si crea lo spazio per la fioritura, o la proliferazione parassitica, dell’Oreste.
La scena si svolge solo sei giorni dopo l’assassinio di Clitemnestra; il figlio non può liberarsi dalla colpa del delitto perché tutti gli argivi lo odiano e nessuno acconsente a mettere in atto i rituali di purificazione. Dal funerale della madre è spossato dalle allucinazioni delle Erinni, che in Euripide non sono più ataviche e terribili dee, ma ancor più orribili spettri mentali, “mostri che abbiamo dentro”.
L‘Oreste ci racconta, allora, della tragedia dopo la tragedia, dopo il matricidio, a tratti rivendicato quasi con orgoglio, a tratti rinnegato come un assurdo obbligo di Apollo. I personaggi sono molto umani. Colpisce la tenerezza di Elettra, sorella di Oreste, nell’accudire il fratello malato, l’amicizia fortissima che lo lega al cugino Pilade, il lutto rancoroso ma comprensibile di Tindareo, padre di Clitemnestra e nonno di Oreste. Ma non si tratta più di eroi. Anzi, sembra che il tragediografo si premuri di non assolvere nessuno. Ad esempio, Elena, che ha compassione di Oreste e non lo accusa del matricidio, ma la sua fatalistica rassegnazione all’onnipotenza degli dei, che dispongono degli uomini per i loro scopi insensati, serve soprattutto a discolpare se stessa della guerra di Troia. La donna più bella del mondo non ha perduto la sua vanità, ma è ormai ridotta a vivere solo di notte per non farsi vedere dai discendenti delle vittime di Troia che vorrebbero solo massacrarla.
Così, dopo il fallimento delle vie diplomatiche e abbandonati dai familiari, Oreste, prostrato psicologicamente, il fedele Pilade e l’acuta ma insensibile Elettra, escogitano un delirante e sanguinario gesto finale che trasforma i disperati in carnefici: l’omicidio di Elena, gesto di violenza insensata e ordito a tradimento. Ma è ancor più idiota e crudele la presa in ostaggio della giovane cugina Ermione, figlia di Elena e di Menelao. L’unica vera innocente di tutta la tragedia, non ancora ipocrita come la madre, né codarda come il padre. La sola ad avere sinceramente compassione della sua condizione finisce con il pugnale di Oreste alla gola.
Così il protagonista, che inizialmente catalizzava la pietà degli spettatori, diventa un attentatore folle e un po’ megalomane, che colpisce alle spalle ragazzine innocenti. Diventa il volto del terrore bestiale. In un solo personaggio, così anomalo da confondere la critica moderna, si incarnano entrambe gli effetti della tragedia secondo Aristotele.
Il senso di spaesamento e insensatezza che permea l’Oreste doveva essere comune negli ultimi anni della ventennale guerra del Peloponneso (la tragedia è del 408 a.C.). Invece di soffermarsi sul momento di massima tensione, di rottura, Euripide sceglie di parlarci, con crudezza e sensibilità, di quello che resta dopo, dei superstiti, dei tentativi di ricostruzione e di dialogo, doloroso e a volte impossibile. Dell’isteria e della disperazione che dopo un lutto possono scatenare altri lutti e altre tragedie.
L’eroe tragico di Eschilo è in Euripide è diventato un attentatore psicopatico, come la cronaca contemporanea ne conosce tanti, che reagisce con estrema ingiustizia e violenza a un mondo che gli sembra ingiusto e violento. “Che male ti sta distruggendo?” chiede Menelao. Oreste risponde: “La coscienza”.
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