Nel tramezzo dei nostri vent’anni
mi persi in una Milano diversa:
avevo una mappa distante mill’anni
e passa dalla reale geografia urbana.
Al che, iniziando una nuova conversa
con un passante, gli chiesi la tramontana
che mi portasse a ridirigermi dalla persa
via, in un mio spazio, una mia regione.
In questo mezzo, ritrovato il percorso,
ristrutturata la questua al passante,
ché l’avevo fatta indarno, tuttavia,
mi troncai alle spalle un pensiero,
lo osservai morire, steso sul selciato
asfaltato, tra piazza San Fedele
e casa del Nostro; lo soccorsi
con un respiro di troppo, gli venni addosso.
E lo tenni in mano, gli diedi un labbro,
poi l’altro, lo tenevo allerta, non sembrava
rispondere; quello era mezzo morto,
chiamiamo un’ambulanza, un centodiciotto
che sapevo non sarebbe arrivato,
non avrebbero nemmeno tentato:
i fantasmi come i pensieri non possono
essere catalizzati alla vita. Ah!,
mi venne di nuovo in un singulto
addosso col suo pianto.
“Che fai?” Gli chiesi aromatizzato dal suo odore
di colera, scabbia e malaria: aveva ancora
punte d’ira negli occhi spenti, ritraeva
il mio sguardo nella trasparenza. Allora, parla!,
gli intimavo io, ma lui apriva la bocca e taceva
apriva la bocca, l’armava, toglieva la sicura
dalla sua rima e parlava, chiosava, depurava
il suo verso lontano nel silenzio più amaro.
Non c’è bisogno di dire che spirò amaramente.
Diede un ultimo battito di gambe e se ne andò,
lasciandomi senza ombrello, sotto una pioggia
d’autunno, a pensare il suo nome, forse darglielo,
ma ormai, che era lontano, affrancato da sé
che farne del suo pianto, della sua morte?
Mi rialzai, lasciandone la carcassa mezza consunta
ai piccioni e agli spazzini, mi misi a camminare
e ritrovai la strada: ero da sempre lì, in piazza San
Fedele, vicino a casa del Nostro.
Fonti
Crediti