PERCHÉ STRANGER THINGS HA UNA MARCIA IN PIÙ?

Più che una serie TV, Stranger Things è stato definito dai suoi autori come un lungo film diviso in otto puntate. In realtà si è detto di tutto su quella che, a mente fredda, è stata la serie-rivelazione dell’estate prodotta da Netflix; fiumi di inchiostro digitale sono stati sparsi nel tentativo di spiegare il suo successo, ora adducendo come motivazione il “fattore nostalgia”, ora lodando la caratterizzazione dei personaggi, l’andamento ottimamente ritmato della vicenda, l’ibridazione tra horror, opera di formazione e teen movie. Molto di ciò che è stato scritto è vero: lungi dall’essere il capolavoro di cui alcuni parlano, la serie riporta in auge gusti e modi di narrazione tipicamente anni ’80 con una freschezza inaudita, riservando peraltro una parte non indifferente alla mai troppo lodata Winona Ryder.

In sostanza, in una piccola cittadina statunitense iniziano a verificarsi strani eventi, tra esperimenti segreti condotti da scienziati senza scrupoli, il rapimento di un ragazzino, Will, e l’inquietante comparsa di un varco che risucchia chiunque lo attraversi. Tutta roba molto anni ’80, ma tutta roba che spinge ad andare avanti con la visione compulsiva. Alla ricerca di Will da parte dei suoi amici – un gruppetto di nerd che farà scendere una lacrimuccia a chi negli anni ’80 aveva davvero il poster de “La Cosa” in cameretta – si intreccia la storyline di Eleven, detta “El”, una bambina scappata da un centro di sperimentazione e dotata di poteri telecinetici.

Stranger Things funziona su più piani, da quello fantasy-horror citazionistico, in cui si muovono i bambini, al dramma investigativo con la madre del bambino scomparso (Winona Ryder) e l’agente di polizia di turno, fino ad arrivare agli intrecci sentimentali della teenager Nancy, corteggiata da due ragazzi. Tutti questi piani si fondono in un unicum solido, e, benché prese singolarmente non abbiano nulla di particolarmente originale, nel loro complesso costruiscono una rete di relazioni tra i personaggi che li rende straordinariamente “umani”.

È proprio l’umanità, intesa come attenzione alla psicologia dei personaggi, il punto forte di Stranger Things, ancora prima del citazionismo, della trama o della regia. Emblema di questa attenzione è, a mio avviso, Steve, il ragazzo di Nancy. Figura assolutamente marginale, presentato come il bad boy di turno, Steve si rivela ben presto un personaggio a tutto tondo, ambiguo e inclassificabile nelle griglie che solitamente si usano per distinguere i “buoni” dai “cattivi”. È una tendenza presente in gran parte dei personaggi, ma in Steve risulta ancora più evidente proprio a causa del suo essere un personaggio “di sfondo”, uno di quelli che in un’altra serie o film sarebbe potuto benissimo rimanere una macchietta monodimensionale senza che qualcuno sollevasse obiezioni.

La serie dell’estate, insomma, ha una sceneggiatura di ferro nonostante – e forse proprio grazie a – un andamento privo di reali colpi di scena per un pubblico anche solo vagamente avvezzo al genere. Questo non basta certo a renderla un capolavoro, ma di certo Stranger Things entra nell’olimpo delle serie migliori degli ultimi anni.

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