Lui era un giullare, nel senso che era buffo, un viso buffo, sempre con la chitarra in mano e anche giocoliere, per divertimento. Lei invece… lei era un giullare tal quale, ma non incantava con la chitarra, bensì con la voce, con i suoi racconti e le sue etimologie dal Greco e dal Latino, con i suoi ragionamenti rapidi.
Lei era un po’ matta, nel senso che era ipercinetica e non si fermava un secondo, un fiume in piena. Anche lui era un po’ matto, fotografava cose a caso come cimici morte di freddo, faceva sempre facce strane per far ridere e si era anche fatto una chitarra con materiali di riciclo.
E poi erano matti tutti e due e con la stessa diagnosi, difatti si erano conosciuti in un reparto di ospedale.
Quattro polmoni che tirano due sigarette, un terrazzino affollato, ma basta uno sguardo per riconoscere un altro giullare.
Ovviamente era stata lei a riconoscerlo, giacché le donne sono più sveglie degli uomini.
“E’ il più giovane dentro. È sveglio. Sarà mio amico”.
Uno sguardo.
Un vuoto riconosce un altro vuoto tra mille. Il vuoto della depressione, perché la depressione non è tristezza ma assenza di sentimento, la depressione è a-patia, dal Greco.
Ci sei? Ci siamo? Sei con me.
E così era stato.
E lui non ricorda perché è un po’ lento, ma quella sera lei stava scrivendo accanto alla porta del terrazzino e lui le era passato accanto per una nuova sigaretta: lui si gira verso di lei prima di uscire, lei mostra il pacchetto di Camel blu, si alza senza aspettare un cenno di lui ed esce con lui… per una nuova sigaretta… lui fumava Camel blu, lei pure.
Lei venne a sapere che lui suonava la chitarra e lei, lei che giullare era senza chitarra? Aveva tentato di imparare tante volte, ma non si era mai appassionata, non aveva mai trovato un insegnante entusiasta.
Gli portò una chitarra, gliela mise in mano e disse: “insegnami questa canzone, si chiama Giullare dei campi, è una canzone di chiesa che parla di Don Bosco, non sono praticante ma la canzone è stupenda, parla di una vita spesa per i giovani”.
Lui suonava rock… non era mica un ragazzo di oratorio lui… e il giorno che iniziò a suonare, sette anni prima, giurò che mai avrebbe suonato una canzone di chiesa. Perché? È presto detto, è un po’ da sfigati…
Ma lei, lei non era sfigata… lei era matta, matta come lui, e a lui piaceva seguire i matti.
Ma in questo caso fu lei a seguire lui, per una volta. Per una volta lei era quella lenta che doveva imparare. Lei amava imparare, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa insegnata con passione.
Lei insegnava, Lettere e Inglese, lui insegnava chitarra.
E le insegnò la canzone che lei voleva imparare, quella sui giullari.
E come ogni buon insegnante lasciò il segno, e lei volle imparare di più. Imparare a seguire lui che suonava la chitarra e le dava la nota giusta, imparare a tacere e godersi la vista di lui che suonava sul letto seduta per terra, di fronte, per avere un colpo d’occhio migliore. Ma lei era così goffa che nemmeno lo guardava suonare, occhi bassi, occhi azzurri che cercavano per terra per timore di incrociare occhi verdi concentrati nello sforzo di un accordo.
Lui era moooooolto aperto da ogni punto di vista. Lei era un bacchettona che non voleva nessuna relazione e nessun divertimento, le bastavano gli amici.
A lei piaceva essere abbracciata e sentirsi piccola tra le braccia di un amico che la prendesse per quello che era senza chiederle di più. E a lui piaceva abbracciarla, perché spogliata delle sue difese verbali, della sua intelligenza, lì, tra le sue braccia era così piccola, quasi umana.
Quasi, perché lei rasentava la perfezione.
Anche lui avrebbe potuto rasentare la perfezione, ma non credeva abbastanza in sé, aveva bisogno di qualcuno che gli mettesse la chitarra in mano e gli dicesse “insegnami”.
Così si abbracciavano ogni sera, prima della nanna.
Lei lo sentiva, sentiva che lui vedeva in lei una donna e non solo una ragazzina fragile, una donna da accarezzare, coccolare, amare. Ma lei gli era grata perché lui non chiedeva, non chiedeva nulla che lei non volesse. Era un piccolo gentleman.
O forse anche lei voleva le stesse cose ma non era pronta. Era lei, più grande di quattro anni, a non essere pronta ad amare. Era così stanca, provata da una relazione con un uomo mai amato, un uomo cui era promessa, il futuro padre del suo futuro bambino.
Era lei ad avere paura, ad essere piccola e fragile e intimorita dal contatto con un uomo.
Ma lei, lei era sveglia e tagliente e sapeva mettere le distanze con chiunque si fosse avvicinato troppo, chiunque avesse potuto farle perdere il controllo. Lei dominava incontrastata ogni sua relazione, guardando benevola gli uomini dal suo piedistallo di superiorità intellettuale che altro non era se non… paura atavica.
Ma lui, le disse, lui “l’aveva accettata”, lei, il suo sarcasmo, la sua dolcezza scritta che contraddiceva le sue parole taglienti e fredde. Un giullare non può che accettare un suo compare, soprattutto se il compare è nel bisogno ed ha paura.
Se hai paura chiama un amico che ti rassicuri.
Lei, quando aveva quattro anni, nella sua brandina della scuola materna, aveva preso per mano il suo vicino di letto, Dario, magrolino e con gli occhiali, perché aveva paura del buio, e così si erano addormentati, mano nella mano.
E sempre lei aveva preso il suo giullare per mano camminando per strada, senza malizia, soltanto perché aveva bisogno di mettere la sua mano piccola di scrittrice in quella più grande e tozza di un chitarrista, di un giullare, di un uomo.
Lei diceva sempre che l’amore è essere a tempo, è lui che suona la chitarra e lei che suona il pianoforte, lei che fa un battuta bruciante e lui che risponde, lui che intona e lei che segue, lei che gli lancia un pallone in faccia e lui che lo prende al volo, da lei certe follie se le aspetta.
E’ difficile essere a tempo con qualcuno se non sei a tempo con te stesso, e lei si sentiva come la Marcia Turca suonata da un ragazzino incapace di sette anni.
E’ difficile fare giocoleria in due se non sei capace da solo.
Lei non era ancora capace, non era capace di far girare tre palline in aria.
Forse non sarebbe stato lui a insegnarle, forse non avrebbero mai fatto giocoleria insieme.
Ma forse, un giorno, lei avrebbe imparato, avrebbe imparato ad amarsi così tanto da tenere in aria quelle tre palline e rilanciarle indietro ad un altro giullare come lei che l’avrebbe amata, tanto quanto avrebbe potuto amarla lui.
A Cura di Sharp