TOMMY WANTS A CRACKER

Tommy chiaramente non è l’unico. L’album e il film si inseriscono in un periodo di rigoglioso fermento di quel genere nuovo e un po’ sperimentale che si è soliti chiamare rock opera.

Dalla fine degli anni ‘60, ad opera innanzitutto del movimento progressive inglese, è dilagata la moda di costruire una pubblicazione organica e inscenabile, piuttosto che una semplice accozzaglia di brani senza senso reciproco. Non c’è modo migliore, dopotutto, per dar l’impressione di un brano che è, diciamo, pari a un David di Michelangelo, di costruire un lavoro musicale multiforme e interconnesso, in cui ogni nota sia significante e significato, inserita come tessera in un’idea e un messaggio dal respiro più ampio.
Sono tanti i nomi che si susseguono per rimpolpare le fila del genere. Solo per citarne alcuni, i più noti, potremmo ricordare The Wall dei Pink Floyd, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars di D. Bowie, Bat out of Hell di Meatloaf, The Lamb Lies Down on Broadway dei Genesis, 2112 dei Rush, Joe’s Garage di Frank Zappa e molti altri. Insomma, sebbene dalla vecchia e scarna filosofia sex, drugs and rock’n’roll non ci si sarebbe aspettati un tale slancio intellettuale, un folto manipolo di esponenti del genere si è distaccato dalla folla per cimentarsi nel tentativo di costruire un qualche cosa che fosse più grande. Più grande di cosa? Non ci è dato saperlo.
Questo slancio, tuttavia, sembra essersi pericolosamente arrestato negli ultimi tempi. Se da un lato non godiamo ancora della distanza sufficiente per poter chiamare “storia della musica” ciò che è stato pubblicato ieri, è anche vero che sembra chiaro che il trend della rock opera sia in caduta libera, abbandonata dai grandi nomi per diventare un lusso di pochi, una nicchia della musica per veri appassionati. Degli ultimi anni, così a occhio, si potrebbe citare soltanto American Idiot e, non se la prendano sul personale  i Green Day, ma sembrerebbe un po’ poco rispetto ai tempi d’oro degli anni settanta.
Spodestata dall’ascesa dei video musicali, la rock opera, tipologia artistica così ambiziosa, e anche un po’ pretenziosa, soffre della crescente diffusione di una tensione “pubblicitaria” che infetta tutte le arti. La trasformazione dell’arte in pubblicità, così bene rappresentata graficamente dalla Pop Art di Claes Oldenburg, ancor più che dall’inflazionato Warhol, non è amica della riflessione: la riflessione è lenta, meditata, mentre l’arte non è che slogan, e lo slogan è la pozione che trasforma l’uditorio in un ammasso di potenziali acquirenti. Il pubblico non è che un grosso cliente.
Per rielaborare un pensiero di René Girard, si potrebbe dire che la menzogna romantica, che prende forma nell’aspirazione a un’opera organica e olistica, stia venendo prepotentemente spodestata da una rapida, frettolosa farsa aforistica.

A cura di Lukas Johnston

 

 

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